Trama: Sua madre è morta a ventidue anni, quando Lejla ne aveva due. Sulla scena sono rimasti suo padre, i quattro nonni, e una Sarajevo bucolica e misteriosa. Ma suo padre passa le notti in osteria, i nonni invecchiano, e il paese in cui Lejla è nata all’improvviso si dissolve. La guerra è raccontata con gli occhi di una ragazzina, nell’impossibilità di tracciare una linea netta tra le parti, poiché lei stessa è figlia di un matrimonio misto, un’anomalia in un mondo improvvisamente ossessionato dalle identità. E la pace, quando arriva, non è che un’inquilina imbrogliona e inadempiente. Attorno a Lejla le figure importanti si spengono una alla volta, lasciandola in balia di un compito difficile da apprendere, l’arte di perdere. È una caduta a corpo libero: perdere le persone, le case, i luoghi e infine ritrovarsi sul fondo, disorientata, sola e spezzata in un ospedale psichiatrico. La risalita è un percorso a ostacoli in cui l’incontro con una ragazza, la scoperta dell’amore, è un faro e un terremoto, un ponte gettato sull’abisso – un dito che passa sulla cicatrice che non sanguina più, una risata che risuona sulla lapide e libera di tutte le lacrime non piante.
In ventidue racconti composti in un unico flusso narrativo, Lejla Kalamujić sviscera intimità, ricordi e conflitti di una figlia alle prese con il fantasma della madre, tra voli di colombe, conversazioni immaginarie con scrittori, esìli e ritorni, sullo sfondo di un paese lacerato dalla guerra.
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Recensione: Lejla ci porta con lei a Sarajevo, lacerata dalla guerra, raccontandoci di lei e della sua famiglia: dei nonni, un padre alcolista che viene allontanato ed una madre che non ha quasi conosciuto, perché morta troppo presto, di cui si trascina dietro l’ossessione, immaginando episodi, dialoghi, litigi.
Racconti frammentati, dove la realtà incontra l’immaginazione, storie di lei bambina, poi adolescente ed infine adulta. E’ la storia di tanti dolori e numerose perdite, di persone, di luoghi, di libertà. Circostanze che hanno su di lei un enorme impatto emotivo, destabilizzante, tanto da portarla ad essere assistita da cure psichiatriche. Lejla si rialzerà, troverà una compagna, quindi la sua vera sessualità e ci sarà un epilogo che lascia presagire qualcosa di ottimistico.
In realtà, il libro è fatto di racconti, ma io non sono riuscita a percepirli come tali. Avevo più l’impressione di un diario, con flashback, riflessioni, accadimenti e fantasie, non sono stata in grado di concepire l’individualità del capitolo e non so se per un mio limite o per volere stesso dell’autrice.
Un libro fatto di poche pagine, si legge velocemente, ma che non sono stata capace di apprezzare come meriterebbe, anche se ho amato il racconto in cui la protagonista narra un suo fantomatico incontro con Kafka, in una notte buia e tempestosa a mangiare dolci.
Il titolo fa riferimento ad un personaggio di Marquez, in cui Lejla s’identifica: un corpo senza vita, ma che necessita di cure, amore ed affetto.
Lejla Kalamujić (Sarajevo, 1980) è autrice di due raccolte di racconti e della pièce teatrale Ljudožderka, oltre che di numerosi racconti premiati in vari concorsi letterari. Chiamatemi Esteban ha vinto il premio Edo Budiša organizzato dalla Regione istriana, è stato selezionato per il Premio Letterario Europeo e tradotto negli Stati Uniti, in Germania, Francia, Polonia e altri paesi.