Per qualche motivo le invasioni aliene tendono ad essere una questione del presente. Da “La Guerra dei Mondi” di H. G. Wells, i decenni e i secoli sono trascorsi, ma la fantascienza continua a immaginare un contatto con gli extraterrestri che avvenga nel presente relativo del narratore, o comunque in un futuro più o meno prossimo. Ma nella fantascienza il futuro è una diretta dipendenza dell’attuale, l’estrema conseguenza della sua logica, il suo specchio grottesco o la cartina di tornasole delle sue paure. E delle sue speranze.
L’Altro, l’alieno, che sia minaccia o alleato, è destinato a non essere ancora fra noi, ma a incombere in un domani sempre rinviato. Ancora un altro secolo, un altro anno, un altro giorno, fino a quando saremo abbastanza maturi e uniti (come specie senziente) per affrontarlo o per accettare la profonda verità che porterebbe con sé: che non siamo mai stati soli (e dunque unici) come ancora ci piace credere.
Esistono le eccezioni. Ma spesso il contatto storico con il potere Alieno è raccontato in chiave cospirazionistico-religiosa. Loro sono sempre stati fra di noi, certo. Erano la verità dietro le nostre storie: i nostri dei, i nostri demoni, i nostri eroi e mostri delle nostre ingenue mitologie. Nomi diversi per la stessa cosa. Semplicemente i popoli dell’antichità non erano abbastanza progrediti, intellettualmente e tecnologicamente – concetti che oggi spesso si sovrappongono ma che, è bene ricordare, non sono sinonimi –, per dare il giusto nome a una realtà che solo noi “moderni” saremmo in grado di capire. Restavano così succubi di una civiltà Altra, mascherata dai paramenti della divinità pagana. Il Presente torna – almeno idealmente, quando non narrativamente – al centro del racconto: la ribellione, la libertà e la verità sono in questo modo possibili solo nel qui e ora della nostra specificità culturale. Il Passato è immaturità, errore. Sudditanza.
Ancora una volta, esistono le eccezioni. Penso a Senso, di Stan Sakai (in qualche modo un ritorno alle origini: La guerra dei Mondi, ma nel Giappone dell’epoca Edo), o a esperimenti come Cowboy vs Alien. Difficile non citare in questa lista La Lega degli straordinari Gentlemen di Alan Moore, anche se l’uso massiccio di classici, citazioni e cliché narrativi costantemente decostruiti, rivisitati e ribaltati (firma stilistica di un autore che ci ha abituato ad aspettarci l’inaspettabile), rendono quest’opera difficilmente catalogabile. Su questa linea, credo, si pone la godibile mini in cinque episodi Lake of Fire di Nathan Fairbairn e Matt Smith, recentemente volumizzata da Saldapress per il mercato italiano.
Lo stile sintetico ed espressivo di Smith – così vicino per certi aspetti al compianto Darwin Cooke – riporta con facilità il lettore alle porte di Castelnaudary nel 1220, nel contesto della crociata degli Albigesi. Dopo un breve prologo in notturna con astronavi e mostri, per mettere in chiaro fin da subito che questo non sarà un romanzone storico, l’atmosfera si fa molto rilassata, quasi comica. Il nobile Theo, accompagnato dall’amico Michel, arriva dal duca di Montfort in cerca di avventura e gloria, per partecipare alla crociata. I protagonisti vengono presentati in maniera ironica, come non all’altezza delle proprie aspettative. E infatti Montfort ne fa un fagotto insieme ad altri rompiscatole del campo, mandandoli per una inutile missione in un villaggio isolato della Francia rurale. Inutile dire che il posto si rivelerà il vero centro dell’orrore e del pericolo, ritrovandosi a loro volta dalla parte degli assediati, contro una legione di feroci predatori alla “alien”.
Impossibile non cedere alla tentazione metonimica del meccanismo narrativo “ad assedio”. Lo sparuto gruppo può essere letto, ancora una volta, come la rappresentazione in scala di un’umanità complessiva. In quest’ottica l’ignoto rappresentato dalle creature, viene rielaborato attraverso i protagonisti alla luce delle categorie culturali e concettuali dell’epoca: i mostri sono dunque demoni, e la colpa della loro presenza viene individuata (dalla figura paradigmatica dell’inquisitore) nel peccato e nella colpa della comunità. Ma la colpa comune ha bisogno in ogni epoca e ad ogni latitudine di un capro espiatorio, che la incarni e ne consenta l’espulsione tramite un rito di purificazione. Nella fattispecie il responsabile di tutto è la pericolosissima ragazzina “eretica” che vive ai margini del bosco, poco lontano dal villaggio nella cui vita è sempre stata integrata… In fondo accusare l’elemento più debole è sempre stato più comodo che affrontare i propri limiti, di fronte alla (ancora) sconosciuta complessità dell’Universo. Peccato che le soluzioni facili siano raramente quelle corrette, e che il pregiudizio renda puntualmente ciechi di fronte al problema reale.
In Lake of fire, Fairbairn utilizza i ritmi sincopati del racconto d’azione, incrociandoli efficaciemente con elementi di horror-syfy impiantati in un contesto storico. Il tutto per mettere in scena il terrore dell’uomo (in quanto collettività umana) di fronte ad un Mondo (il Cosmo è qui Natura inesplorata, Realtà non addomesticabile attraverso le categorie della Civiltà) immensa, sconosciuta e selvaggia. Il ricorso al passato riecheggia qui nuovamente volta il presente, ma questa volta, come la vera storiografia, affidando ai superstiti, in quanto testimoni una lezione dura e spesso inascoltata: non ripetere i soliti errori.