Agropoli, 3 febbraio – Officina 72 è uno strano esperimento, nato tra i vicoli della provincia cilentana, per la precisione ad Agropoli: metà sala di registrazioni locale, metà spazio per performance musicali di respiro nazionale e internazionale, con un piccolo bar all’ingresso. Il nome deriva dal fatto che una volta lì si aggiustavano le auto, era una vera officina automoblistica, tenuta dal padre dell’attuale proprietario.
Da qualche tempo il locale ha riaperto, cambiando destinazione, ma lo spirito è rimasto nello stile: tavoli ricavati da copertoni, una vecchia pompa di benzina all’entrata, la console poggiata sul muso di un’auto… . Sui muri ci sono le scene e i volti più iconici della musica moderna, dai Freddy Mercury ai Beatles, passando per Jimy Hendrix.
Questa sera l’Officina ospita la band di Ian Fisher, cantante e compositore statunitense, che vive ormai da anni a Vienna. Il concerto lascia tutti senza fiato in un altalenarsi di calda malinconia e allegria contagiosa. Fra un brano e l’altro Ian trova anche il tempo per omaggiare il cantautorato italiano, intonando “E penso a te” di Battisti. Gli applausi non attendono la fine del pezzo.
Dopo il concerto Ian mi racconta qualcosa della sua storia.
Innanzi tutto, chi è Ian Fisher?
Sono nato in una piccola cittadina del midwest, nel Missouri. A 13 anni mi sono trasferito in Europa, a Vienna. Ho studiato scienze politiche, e anche musica, per farla in maniera più professionale. Cominciai a suonare quando avevo 13 anni, scrivendo canzoni, centinaia di canzoni… In Europa ho iniziato a fare tour..sono stato in tour per circa 8 anni.
Come nasce la passione per la musica? Cos’era la musica per te ieri, e cos’è oggi?
La musica è sempre stata una grossa parte della mia vita, fin da quando ero bambino. Ma quando ho iniziato a suonare, è stato perché ho trovato il basso di mio padre nel seminterrato. E ho iniziato perché una ragazza mi aveva detto di no. Così pensai che sarebbe diventata la mia ragazza se fossi stato in una band… Non fu così. E’ una storia dannatamente tipica. Non è la ragione per cui lo faccio ora, ma era una buona motivazione per un tredicenne.
Ora lo faccio perché è quello che sono. Voglio dire, è così profondamente legata alla mia identità, che sarebbe impossibile smettere.
E la band? Come vi siete conosciuti?
Ho incontrato il tastierista circa 10 anni fa: lui studiava musica e io scienze politiche, e abbiamo fatto musica assieme per i dieci anni successivi. Il bassista l’ho incontrato in un castello in Austria, non nella città di Castel, ma in un vero dannato castello. Gli altri sono con noi da qualche mese, e questo è il nostro sesto concerto assieme. La band cambia spesso.
Il tuo lavoro ha delle solide radici nella musica americana. Pensi che l’Europa ti abbia influenzato? E come?
Penso che l’Europa mi abbia influenzato per lo più a livello di lirica. Molta musica tradizionale americana è molto onesta, ma la musica contemporanea al contrario è spesso molto superficiale. Sento che la cultura mittle-europea sia molto onesta, critica, cinica anche. Credo che mi abbia reso un po più pessimista e cinico, più onesto. Probabilmente è stata questa l’influenza maggiore.
Nella mia vita adulta non ho ascoltato molta musica country in realtà, non da quando sono in Europa. Forse dovrei tornarci… L’ascoltavo appena arrivato. Credo che nei primi tempi per me fosse una sorta di coperta, che mi faceva sentire al sicuro e mi ricordava casa.
Ma più diventavo europeo meno mi serviva la musica country. Penso che la miglior musica che abbia mai fatto non sia country, o non solo country, ma di altro tipo. Un country influenzato dall’indipendent, dal folk-rock. Il mio approccio alla scrittura per esempio è molto folk. E ho addirittura alcune influenze pop, perché quello che mi piace è la semplicità, la chiarezza. Il modo in cui scrivo è estremamente autoconsapevole, descrive un momento molto specifico, un determinato sentimento. Non c’è molto storytelling credo, è più folk che semplice country music.
Cos’è l’arte per te?
L’arte non è intrattenimento. E’ una sfida. E’ cercare di trovare questa strada fra l’anima e la bocca se sei un cantante, tra l’anima e le mani se sei uno scrittore, tra l’anima e il pennello se sei un pittore. E’ la comunicazione dell’anima con il mondo esterno.
Questo a livello individuale. A livello sociale Kandinsky diceva che l’arte è lì per spingere in avanti la società. Sento che molti artisti non lo fanno più, oggi; sento che io non lo faccio di solito. E’ molto difficile farlo, perché il pubblico non vuole sentire quella merda, vuole solo essere intrattenuto, ma non mi piace: l’arte è qualcosa di scomodo.
Quindi l’arte dipende anche dalle persone, da chi ascolta?
Assolutamente. C’ è sempre questa relazione tra l’artista e chi percepisce l’arte. L’arte non esiste nel vuoto, e non ha a che fare solo con l’artista. Voglio dire, la percezione stessa dell’arte è una forma d’arte: quando ascolti una canzone crei un universo nella tua testa, e la creazione di quell’universo è arte, anche se nessun altro lo vede. L’arte è creazione, e onestà. E’ quello che viene fuori quando sei onesto.
Il tuo ultimo album si chiama Kolfur. Cosa significa? E di cosa parla?
Kolfur è la parola tedesca per valigia. Infatti l’album è una sorta di mixtape di canzoni che mi portavo dentro da alcuni anni. Erano come un bagaglio che mi portavo dietro da un po’, e quest’album è stato un opportunità per tirarle fuori dal petto, per liberarmene e tornare a respirare.
Ormai sei al quarto tour nel nostro paese. Ma com’è stato il primo?
Il primo tour non mi piacque per niente. Ma ora sì, ora è diverso. La prima volta non capivo il posto, non capivo questo caos. C’era sempre della disorganizzazione e del ritardo, se comparato alla Germania o all’Austria. Lì tutto è organizzato al secondo quando sei in tour, qui invece è tutto più rilassato, c’è molto più spazio per variazioni, per l’interpretazione. Non riuscivo a capirlo la prima volta che sono venuto in Italia, ma ora è la quarta e finalmente inizio a comprendere: avete il senso del lasciare andare, del prenderla con calma. C’è un espressione in America “take it easy, but take it” [“Fai con calma, ma fallo”, Ndg], e credo che sia una buona mentalità in Italia: fai con calma, ma fallo.
E dopo questo tour, quali sono i programmi?
Probabilmente lavorerò al mio prossimo album…ho tante canzoni accumulate negli anni. E cercherò di capire cosa diavolo voglio davvero.