Cosa centra Conan il Barbaro con Cthulhu? Ed entrambi con i Mi-Go delle leggende tibetane? Dampyr ha da tempo abituato i propri lettori a pensare che storie e leggende siano più che invenzioni occasionali. Un multiverso reso affascinante da una unione sincretica che si sviluppa a più livelli. Il primo è quello diegetico, costituito dalle avventure dei suoi stessi protagonisti, da vent’anni ormai trasportati in un multiverso vastissimo di orrori gotici e ancestrali, cosmici e quotidiani. Dampyr è intrecciato in una trama ferrea e vastissima. Un mondo non privo di un suo senso contorto (come è il senso dell’orrore), nel quale è facile entrare e molto difficile uscire. Ma tale multiverso potrebbe difficilmente essere il frutto di un solo autore. Così ecco un secondo livello: quello dei diversi autori che si avvicendano alla testata, portando con sé le proprie visioni e ispirazioni, tentando di mantenersi fedeli allo spirito e alle caratteristiche di una saga che precede e segue i loro singoli apporti.
Il che ci porta al terzo livello. Non sono solamente le idee di sceneggiatori e disegnatori a muoversi sulle pagine di Dampyr ma, specie negli ultimi anni, anche e soprattutto quelle degli autori che li hanno preceduti. I grandi maestri del genere, gli scrittori di feuilleton e weird tales, i romanzieri, gli ideatori senza nome di miti e leggende che hanno animato nel corso dei secoli le menti di milioni di lettori. Una sottile trama che attraversa e sorregge il reale, a metà fra patrimonio di invenzioni condiviso attraverso i secoli e sprazzi di intuizione trasfigurati dal mito. Un immaginario senza fine, a cui nessun autore si sottrae, essendo un nodo, grande o piccolo, all’interno di una trama immensa.
Non ci sarebbe nulla di nuovo quindi. Pura re-invenzione narrativa. Dampyr però usa questa regola implicita come un gioco narrativo. E il gioco è proprio quello di esplicitare la regola.
Dichiarando costantemente le proprie fonti, gli autori di Dampyr fanno emergere sulla pagina le radici della propria immaginazione, trasformandole in elementi reali nella finzione fumettistica. E la ricchezza di queste fonti si trasforma in una catena di rimandi, una genealogia fantastica di immagini che, nate divise, vengono all’improvviso ricollegate in un affresco che unisce finzioni narrative e realtà biografiche, storiche, editoriali. In un gioco, appunto, che assottiglia attraverso le suggestioni inquietanti del mistero e del complotto, il rigido confine fra racconto inventato e realtà.
In questo numero 246, “I sussurri nel buio” ad esempio Boselli e Genzianella intrecciano (di nuovo), le vite e le opere di Robert Erwin Howard e quelle di Howard Philipp Lovecraft. Entrambi scrittori di Weird Tales negli anni d’oro delle riviste di genere, entrambi personaggi dalla biografia travagliata i due hanno prodotto alcuni capisaldi dell’immaginario collettivo novecentesco: da un lato l’orrore cosmico di Chtuluh, dall’altro i mondi avventurosi e barbarici di Conan. Ma se a unirli fosse stato anche qualcos’altro, qualcosa di più profondo e reale, alla radice delle rispettive fantasie?
In una vicenda tra lo spy story, l’horror-noir e la ricerca bio-bliografica, Boselli inizia un racconto di ampio respiro fra passato e presente, che getta un ponte fra le visioni che hanno plasmato il nostro inconscio moderno e le antiche leggende popolari. Ricco di suggestioni erudite, “I sussurri nel buio” può contare su un buon ritmo narrativo, la ricchezza e la complessità dei suoi protagonisti, e il tratto chiaro ed appagante di Genzianella, in grado di suggestionare il lettore, suggerendo più che descrivendo, quando serve, attraverso l’uso strategico del chiaroscuro. Nella migliore tradizione di H.P.L.