Londra, 2010. La Supreme Court of the United Kigdom, alta corte di giustizia britannica, condanna la EMI, storico colosso della discografia, a risarcire i Pink Floyd. Pomo della discordia le modalità di distribuzione e vendita su internet dei prodotti del gruppo inglese. Il “delitto” è vendere singoli brani, scorporati dall’impianto originale entro il quale erano stati pensati e collocati e tutto ciò, secondo i Floyd e secondo il giudice Andrew Morrit, in violazione del contratto di commercializzazione stipulato tra le parti quasi un cinquantennio prima.
Da qui giù, imprigionato come sono nell’era di iTunes, Spotify, delle Playlist casuali e automatiche, di YouTube e del “Quante visualizzazioni ha il cantante X?”, mi torna difficile comprendere il senso di una tale querelle, ecco perché mentre leggo questa notizia sto già impostando la data e girando la chiave nel quadro della mia fida Macchina del Tempo. Non c’è da aspettare, c’è da capire. Si parte, destinazione Storia!
Anni Cinquanta, il pubblico va matto per i singoli dei piccoli 45 giri. La musica si ascolta nei bar: inserisci la moneta, parte il pezzo, balli e hai tre minuti per riuscire a fare colpo su una pollastrella. Se poi sei figo come il tizio in fondo alla sala, che sta assestando dei bei colpi al juke-box, risparmi anche gli spiccioli. Sembra davvero simpatico, ho sentito i suoi amici chiamarlo “Fonzie”.
Pago la mia birra e mi sposto qualche anno in avanti, pieno boom economico e benessere diffuso. Gli impianti di riproduzione audio sono arrivati nelle case e chi ascolta musica ha iniziato ad apprezzare anche il Long Playing, un formato introdotto nel 1948 dalla Columbia Records. Coi suoi 12 pollici (30 cm) di diametro è un disco leggermente più grande del vecchio 78 giri, ma ne decuplica la durata, portandola a 20/30 minuti per facciata contro i 3/4 del suo antenato.
La grande novità in cui mi imbatto in un negozio londinese, nel marzo del 1963, è il primo 33 giri dei Beatles, “Please Please Me”. La fila di ragazzi alle casse è impressionante.
Inizialmente concepito come un insieme di canzoni, un paio di singoli di successo e una serie di riempitivi, lungo i magici 60’s il cosiddetto Album è protagonista di una stagione di trasformazione che ne segnerà le sorti, soprattutto in ambito rock (ma non solo) per il ventennio a seguire. A tale evoluzione stanno concorrendo come sempre più fattori, da una più spinta ricerca sonora consentita dai progressi tecnici nel campo della registrazione, al mutamento di coscienza degli autori, che con sempre più forza si concepiscono come artisti e in quanto tali comunicatori di messaggi. Non da ultima c’è anche la richiesta di contenuti più profondi da parte dell’utenza. Agli ascoltatori non basta più gettare monete nei juke-box e ballare un pezzo. Alla vigilia del ’68 chiacchierare con i giovani rivela tutto il desiderio di modelli alternativi, di raffigurazioni di mondi possibili, di idee da condividere e in cui rispecchiarsi. Questa generazione chiede che gli siano raccontate delle storie.
La risposta musicale degli Anni ’60 è il Concept Album. Non più un’accozzaglia di brani ma una vera e propria Opera con un’idea di fondo – un concetto appunto – che ne garantisca l’unitarietà. Tutte le parti del concept album contribuiscono alla realizzazione di un disegno che superi per significato la semplice somma della sue canzoni. Dust Bowl Ballads di Woody Guthrie, pubblicato nel 1940, è da molti considerato, per l’unità tematica dei testi, il progenitore della nuova filosofia.
Ma il concetto degli LP dei ’60, fatto tesoro della lezione di Guthrie, si estende anche ad aspetti più propriamente musicali, come la ricerca di un sound coerente o l’idea di eliminare i silenzi tra un pezzo e l’altro di modo che questi fluiscano l’uno nell’altro.
Pet Sounds dei Beach Boys e Freak Out! dei Mothers of Invention sono due opere del 1966 che gettano le basi e definiscono un primo standard di questo nuovo modo di concepire la composizione degli album.
Un anno dopo, nel 1967, in un pub di Londra faccio un incontro straordinario. Seduta a un tavolo, due pinte di fronte, c’è una giovane coppia di artisti all’opera con alcuni bozzetti e una serie di foto tagliuzzate a comporre uno strano collage. Lui è Peter Blake, lei è sua moglie Jann Haworth. Mi spiegano che stanno lavorando alla realizzazione della prima copertina a libretto nella storia dei Long Playing, una grande innovazione. Dentro ci si potranno leggere i testi delle canzoni. Mi sporgo a guardare meglio sul tavolo:
Sergeant Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei soliti fantastici quattro, i Beatles, è forse il primo disco che ingloba appieno tutte le strabilianti novità di questo periodo, compreso il definitivo matrimonio tra la musica e l’arte figurativa.
Il 1967 è infine l’anno di esordio dei ragazzi coi quali abbiamo aperto questo racconto, i Pink Floyd.
Per comprendere quale imperdonabile crimine sia spezzettare un concept e venderne singoli frammenti, non vi resta che stappare una birra, rendere l’atmosfera rilassante, mettervi comodi e spegnere il cellulare. Regola delle regole è il divieto assoluto di premere il tasto “skip”, ma tanto se avete un 33 giri questa possibilità non esiste.
Dal 1973, ultima tappa del viaggio di oggi, ho portato un souvenir. È stato realizzato pensando a un uomo, nella sua singolarità, attraversato dal raggio luminoso della vita. Dal primo all’ultimo suono che sentirete, il battito cardiaco che arriva e il battito cardiaco che se ne va, il disco è un affresco potentissimo della ricerca di equilibrio tra il lato lucente e il lato oscuro, tra noto e ignoto, razionalità e follia, vita e morte. Una panoramica filosofica, antropologica e sociologica sull’esistenza.
42 minuti e 57 secondi che tutti abbiamo il dovere di regalarci.
Buon ascolto e buon viaggio, perché un buon disco non è che una piccola e fantastica macchina del tempo.
«Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.»
Se poteste scegliere una raffigurazione dei celebri versi di Quasimodo, che ne direste di questa?