Non sono in un bel posto. Molte case sono abbandonate, altre addirittura distrutte. Qua e là macerie ammucchiate e resti di falò serali compongono uno scenario urbano abbastanza desolante. Alcune macchine sono ridotte a carcasse sventrate che i ragazzini non esitano a vandalizzare oltremodo. I piloni dei ponti dell’autostrada che sormonta gli abitati sono completamente ricoperti di graffiti, così come i vagoni della metropolitana e qualsiasi altra superficie su cui possa arrivare lo spray di una bomboletta. Sono finito qui per caso, quando stamattina la radio della mia macchina del tempo ha trasmesso uno dei mille pezzi rap che stanno spopolando nel nostro paese.
All’esterno di un edificio scolastico chiuso -dal caldo deduco che debba essere estate- c’è un gruppo di ragazzi a “decorare” il muro con delle incomprensibili firme. Mi faccio coraggio e chiedo dove diavolo sia capitato. Scoppiano in una risata fragorosa, devo sembrargli pazzo.
Barba incolta e stuzzicadenti in bocca, un ragazzone sulla ventina mi si presenta come Clive Campbell. Dice di essersi trasferito qui dalla Jamaica sette anni fa. Se ho tanta voglia di sapere dove sono, posso seguire la cricca in Sedgwich Avenue, al numero 1520 sta per cominciare il Block Party. Mentre me ne mostra il volantino, regala un’altra risata alla banda, dicendomi che lì il negro sarò io. Effettivamente sono l’unico bianco, ma lui non si riferisce al mio colore. Per nulla sottilmente mi ha fatto capire che sono io la minoranza.
Appena girato l’angolo riesco a scorgere la tabella della strada: “Bronx, NewYork 10453”. Un’altra fondamentale informazione me la offrono i giornali appesi all’ingresso di un emporio. Tutte le prime pagine parlano dello scandalo “Watergate” che ha investito il presidente Nixon.
E’ l’11 Agosto del 1973.
Per fortuna a Clive sto simpatico. Mi sta spiegando che nel Bronx i lavori per l’autostrada, conclusi un anno fa (1972), hanno causato un crollo del valore degli immobili. I bianchi sono andati via, vendendo o addirittura incendiando le loro proprietà nella speranza di riscattare i premi delle assicurazioni. Nel quartiere la criminalità la fa da padrona. Da quando lui è arrivato in America i giovani si associano in gangs, bande di strada spesso (per non dire sempre) violente. Lo fanno per ragioni di sicurezza. Se non fai parte di una gang, mi dice, sono guai, potresti anche rimanerci secco. Vedendomi pallido, decide di tranquillizzarmi. Nei locali del Bronx è meglio non mettere piede, provare ad entrare in quelli per gente “per bene” sarebbe pure peggio. Ma le sue feste di quartiere (ecco cosa significa Block Party) sono il top. Qui il fulcro del divertimento è la musica! Però da ora non posso più chiamarlo Clive, lui è DJ Kool Herc.
Montati due giradischi, un doppio amplificatore con due canali per chitarra e grossi altoparlanti, DJ Herc inizia a pompare a tutto volume “It’s Just Begun” dei The Jimmy Castor Bunch’s e “Melting Pot” di Booker T & the MG’s. Così, per strada. In pochi minuti è pieno di gente. Herc afferra un microfono e chiama a raccolta B-Boys e B-Girls. A quel punto il DJ isola un Break percussivo di una traccia e, manipolando abilmente i due piatti dei giradischi, lo lascia andare in loop. È una tecnica di sua invenzione, l’ha battezzata Merry go round (la “giostra”), gli piace particolarmente farlo su “Give It Up Or Turnit A Loose” di James Brown, mandando a ripetizione la frase “Clap your hands, stomp your feet”. Ci parla su, incitando il pubblico come sentiva fare anni fa in Jamaica, dove i DJ chiamano questa pratica Toasting, un insieme di commenti vanitosi, cantilene ritmate, grida, rime. Non posso crederci, sto assistendo alla nascita del Rap! Poi, in molti si dispongono a formare un grande cerchio, sta per succedere qualcosa. Alcuni danno inizio a una danza improvvisata dai movimenti frenetici, in piedi poi a terra. Due gruppi si sfidano a colpi di virtuosismi fisici, sottolineati dalle urla dei presenti. Dato che si balla su breaks, tutti chiamano questa danza Break-Dance.
Bande, graffitismo, break-dance. Sono tutti elementi della giovane cultura Hip Hop.
La parte musicale di questa cultura, a partire dai DJ che interagiscono coi giradischi rendendoli dei veri e propri strumenti, sfocia nel Rap. Qualcuno tra i presenti sostiene che rap sia l’acronimo di “rhythm and poetry”.
Le minoranze, non solo gli afroamericani ma anche gli ispanici, stanno comprendendo la capitale importanza rappresentativa della parola e del suo controllo, da sempre al centro nei rituali africani, nel talking blues, nei discorsi ritmati dei predicatori religiosi e dei leader politici. Ai DJ si affianca presto la figura del MC, il “Maestro di Cerimonia”, che ha il ruolo di consegnare agli ascoltatori, su di una base musicale, le situazioni commentate con questo linguaggio fitto e ritmato, spesso in rima.
Se penso che qui nei ’70 Soul, R&B, Funk sono ancora etichettati come “race music” e che siamo ancora nel pieno delle battaglie per i diritti civili, mi è chiaro quanto i pionieri dell’ Hip Hop come DJ Kool Herc, Afrika Bambaataa, Grandmaster Flash, stiano dando un grande contributo all’affermazione di identità delle comunità minoritarie, non a caso il verbo represent è uno dei più ricorrenti nei testi del rap.
Il primo pezzo a superare i confini dei ghetti e ad imporsi come successo discografico di questo genere sarà del 1979: Rapper’s Delight, della Sugar Hill Gang. Negli anni ’80 esploderà la moda di questa musica, sulla scia del successo del film Flashdance (che però suggerirà l’idea che lo stile sia stato inventato da una danzatrice bianca!) e di nuovi gruppi come Run D.M.C o Beastie Boys. I ragazzi che stanno ballando al party di Kool Herc, tutto questo non se lo immaginano neppure.
Saluto Clive, lo ringrazio, ma per me è ora di tornare a casa. Rimonto in macchina mentre penso ai miei contemporanei con le canotte larghe da basket e i cappellini con le visiere alzate. Il Rap è un cosa seria…se si hanno cose da dire.
Ah! Guardate cosa mi sono ritrovato in tasca!
