Quello che Nolan ci propone non vuole essere il classico film di guerra. Dunkirk è un film che si è sforzato di essere diverso dal cliché sulla seconda guerra mondiale, proposti a cadenza quasi annuale (Solo per citarne alcuni recenti: Allied – un’ombra nascosta; Fury; USS Indianapolis; La Battaglia di Hacksaw Ridge; ecc.). Ovviamente, quando si parla di registi del calibro di Christopher Nolan, bisogna aspettarsi un composizione inconsueta. In questo film l’arco temporale non è lineare e la scelta narrativa già utilizzata in precedenza dal regista , gli eroi da guerra come li conosciamo , vengono trasformati in animali in gabbia e il “nemico” non appare mai sullo schermo in carne ed ossa, ma solo sotto forma di caccia e bombardieri di metallo. Quello che però risulta essere nel concreto, nonostante i suoi sforzi, è un ennesimo film di guerra, compreso di blando patriottismo finale, che per quanto possa essere giustificabile, ho sempre trovato antipatico.
Attenzione: gli spoiler non sono molti, ma sono presenti. Siate cauti.
La scena di apertura del film è esplicativa di ciò che vuole essere il film: Tommy, uno dei protagonisti e altri tre soldati si aggirano per le strade di Dunkerque battute da una pioggia di volantini intimidatori, in cerca di sigarette, cibo e del molo da dove è prevista l’evacuazione, fin quando non vengono colti di sorpresa dai nazisti e l’unico a sopravvivere è Tommy. Visivamente la violenza è ridotta al minimo, in questa scena come in tutto il resto del film: non è il voyeurismo ciò che interessa al regista. Nolan si concentra su elementi quali il tempo, l’attesa, l’assedio e la tensione che questi elementi comportano, da far vivere agli spettatori in prima persona, come se anche loro stessero aspettando la barca che li porterà a casa. Il film tratta della battaglia di Dunkerque (Dunkirk non è altro che il nome inglese della località), dove gli eserciti francese e inglese rimasero circondati dalle truppe del Terzo Reich, in seguito all’occupazione del Belgio e della Francia settentrionale. Grazie soprattutto alle navi della marina commerciale e privata inglese, più di 300.000 soldati furono miracolosamente salvati, in quella che verrà chiamata Operazione Dynamo.
Nolan riesce in parte nel far proiettare gli spettatori nell’evacuazione di Dunkerque (dico in parte poiché questa tecnica può tranquillamente trasformarsi in una critica) adottando un escamotage arguto: annulla qualsiasi introspezione psicologica e fa sì che l’onniscienza dello spettatore sia ridotta al minimo. I personaggi di conseguenza risultano imperscrutabili esattamente quanto lo possono essere degli sconosciuti in metropolitana, dando la sensazione che tutti tirino avanti come se fossero governati da un burattinaio o dall’inerzia. Mi sono imbattuto per caso in una citazione che trovo perfetta per il film, presa da Mattatoio n.5 di K. Vonnegut:
Quasi non ci sono personaggi, in questa storia, e quasi non ci sono confronti drammatici, perché la maggior parte degli individui che vi figurano sono malridotti, sono solo trastulli indifferenti in mano a forze immense. Uno dei principali effetti della guerra è, in fondo, che la gente è scoraggiata dal farsi personaggio.
Di contro, la mancanza di introspezione e di vissuto dei singoli personaggi fa sì che quel che loro vivono, pensano e i criteri che utilizzano per prendere determinate decisioni ci siano totalmente estranei, annichilendo ogni possibile legame empatico con i protagonisti. I personaggi molto spesso risultano piatti, rendendo il film emotivamente sterile, eccezione fatta per la tensione, che fa da protagonista. Questo avviene maggiormente per merito della mano esperta di Hans Zimmer, il quale ha già collaborato con il regista componendo la soundtrack della trilogia di Batman, Inception e Interstellar. Il famoso compositore cinematografico accompagna ogni scena amalgamando musiche e suoni, gestendo magistralmente gli intervalli tra una scena d’azione e l’altra.
Con l’arrivo del protagonista sulla spiaggia avviene la presentazione delle tre linee narrative del film, ognuna con un proprio arco temporale, che si intersecheranno nel finale: il molo, il cui arco si svolge in una settimana; il mare, in un giorno; il cielo in un’ora. Questa divisione enfatizza ancora di più l’importanza che il regista dà all’attesa, presentata in ogni sua possibile variabile: dall’attesa dell’arrivo dei soccorsi, all’impazienza di aiutare i propri soldati o commilitoni. Attese che, indifferentemente dall’effettiva durata temporale, sono sempre uguali. E’ uno spazio senza tempo, incastrato tra i nazisti e l’eventuale salvataggio, tra vita e morte, silenzio e rumore. Le tre linee narrative ricevono la stessa attenzione da parte del regista e la stessa quantità di scene con una leggera preferenza per le scene aeree, senza alcuna traccia di coerenza tra il tempo della storia (quello reale) e quello del discorso. Il susseguirsi delle giornate non viene mai mostrato, eccetto una singola scena notturna e l’arrivo a Dover, ed è lasciato maggiormente all’intuizione dello spettatore.
Nonostante tutto ho comunque percepito delle assenze. La prima è che ho potuto notare solo informandomi meglio sulle dimensioni di questo evento storico, che è quella del CGI, tenendo in mente che il budget del film era di ben 100 milioni di dollari. I numeri della battaglia di Dunkerque sono impressionanti: erano presenti più di circa trecentomila soldati, novecento imbarcazioni militari e tremila aerei inglesi, di contro a qualche decina di migliaia di soldati in spiaggia, una dozzina di navi in lontananza e poco più di cinque aerei in Dunkirk. La sproporzione è considerevole e le dimensioni dell’evento storico sono quelle che più possono catturare l’immaginario collettivo. Inoltre l’epicità del finale storico, di una flotta mastodontica di barche di svariate dimensioni e provenienze, viene mortificata ad una trentina di barche.
La seconda è l’assenza di soldati di colore che, per quanto l’argomento possa sembrare erroneamente noioso per molti, è storicamente sbagliato: sia nell’esercito inglese che in quello francese i soldati di origine africana erano numerosi; inoltre, ad appoggiare le truppe britanniche, era presente l’esercito indiano. Inserire nel cast comparse africane/afroamericane e indiane avrebbe contribuito non solo al realismo, ma avrebbe evitato le pesanti e molteplici accuse di whitewashing (quando in un film personaggi di etnia non caucasica vengono sostituiti da personaggi caucasici).
La terza assenza è quella di un messaggio diverso dalla solita sviolinata patriottica, dell’impegno comune per un bene superiore e tutto il resto. Sono convinto che una buona opera d’arte, quando non è dichiaratamente adulazione estetica, necessita anche di un buon messaggio e solo in base al suddetto messaggio e al suo veicolo si può procedere alla valutazione finale. Ora, bisogna ammettere che la trama e l’evento storico non potevano essere conduttori di un messaggio troppo fuori dalle righe, ma alla fine il sentimento di vuotezza mi è rimasto. Ho visto un film che propinava il solito messaggio con reminiscenze hollywoodiane, con protagonisti gli inglesi, che sostituiscono l’infallibile e onnipresente esercito americano.
In conclusione, non si può sostenere che Dunkirk sia un pessimo film. Si può sostenere invece che non sia niente di speciale e che possa risultare vuoto all’occhio di uno spettatore attento, specialmente se paragonato ad altri capolavori del regista.