Siamo sul finire degli anni ’20. Un decennio che ha le tetre sembianze di un precipizio per il popolo americano. Il matrimonio tra immagini e musica è oramai stato celebrato e nessuno si sogna di dividere ciò che il Dio Cinema ha unito. Molti produttori però già guardano oltre e si gettano a capofitto nel sonoro, smaniosi di dar voce ai loro attori. Molti produttori, ma non tutti. Se da un lato un personaggio come Topolino ha ricevuto il battesimo proprio immergendo il capo nell’acqua santa dei suoni, dall’altro c’è un personaggio che, invece, dal silenzio continua a trarre tutta la sua forza: Charlot.
Sir Charles Spencer è infatti irremovibile quando nel 1929 urla al fratello Sydney, suo agente, che Charlot non avrebbe mai parlato: The Trump era muto e muto sarebbe rimasto.
Oramai era quasi un anno che andavano avanti i lavori del loro nuovo film e il termine delle riprese appariva più lontano che mai. I costi di produzione lievitavano ogni giorno e Syd – come lo chiamavano gli amici – stava solo cercando di non far affondare l’azienda di famiglia con la richiesta di dare una voce a Charlot. Temeva che all’uscita il film sarebbe stato percepito come antiquato. Il destino ha un senso dell’umorismo ineguagliabile quando gli si presenta la giusta occasione e questa deve essergli apparsa a dir poco perfetta. Poco dopo la discussione il regista si trova a girare una scena cruciale per il film: una fioraia deve scambiare il vagabondo Charlot per un milionario. Il problema?
La donna è cieca e Charlot muto. Come può mai darsi quindi questo fraintendimento? Come si può rendere in modo credibile? Charles cade in una profonda crisi. Gira e rigira la scena centinaia di volte in cerca di una soluzione, tanto che questo ciak rimane nella storia come il più ripetuto di sempre! Finalmente, al 342esimo tentativo, arriva la soluzione! La portiera di una Rolls-Royce viene chiusa da un ricco signore proprio al passaggio dell’attore. Quel suono sordo per la fioraia risulta inconfondibile che quindi scambia il vagabondo per il facoltoso proprietario dell’auto. I successivi anni non sono meno faticosi per Charles. Tra la causa di divorzio, le pendenze con il fisco e vari problemi di salute, portare a termine l’opera è una vera impresa.
Ad ogni modo, dopo tre faticosissimi anni e dopo aver impresso oltre cento chilometri di pellicola, il film finalmente vede la luce. Siamo nel dicembre del 1930 e gli Stati Uniti sono nel pieno della più grande crisi economica della loro storia. Il film deve però uscire al più presto e Charles è così impaziente che contribuisce al completamento dei lavori per il nuovo Los Angeles Theatre con ingenti somme di denaro.
È qui che si deve tenere in pompa magna la prima proiezione, il 30 gennaio 1931, ed è sempre qui che il mio viaggio ha inizio. Quelli qui sopra non sono che appunti che ho raggruppato per puro interesse personale, sperando possano risultare utili a qualcun altro e sperando che il biglietto dorato faccia il suo dovere, catapultandomi lì, al 615 S Broadway, proprio quel venerdì sera.
Eccomi qui. La realizzazione del desiderio non s’è fatta attendere. Il teatro è scintillante, i lavori sono terminati solo poche ore fa. Probabilmente all’interno stanno ancora sistemando le ultime cose. Qui fuori la folla è immensa. Ci saranno non meno di 20.000 persone accorse per dare una sbirciata alle celebrità invitate. Mi volto e dall’altra parte della strada noto un’altra calca di persone. La fila è più piccola ma anche più ordinata. Pochi passi e ne comprendo la natura. Si tratta di intere famiglie in fila per il pane. Lascia a bocca aperta assistere ad un contrasto così marcato tra opulenza e povertà. Da un lato della strada una madre attende ore nella speranza di poter portare a casa un tozzo di pane mentre sul marciapiede opposto l’élite americana si è data appuntamento nel più lussuoso teatro della città per assistere ad un film. Con questa immagine in mente mostro il biglietto dorato alla maschera, che con un sorriso mi invita ad entrare.
La hall è immensa, alta più di 15 metri, in pieno barocco francese. Charles non poteva scegliere luogo più simbolico per questa prima. L’auditorium non è da meno con i suoi 2.200 posti a sedere. Accanto a me sento due signore dell’alta borghesia conversare intorno al drappo principale del palcoscenico di pura seta e di come si stimi sia il più costoso mai realizzato per un teatro. Il lusso qui è incredibile, tutto è lavorato a foglia d’oro, ogni lampadario è di cristallo, ogni dettaglio curato sino alla nausea. L’immagine di quella madre non mi ha ancora abbandonato.
Il brusio si fa più forte, segno che qualcosa sta per accadere. Dalla porta principale ecco che fa il suo ingresso lui, la star, Charlie Chaplin, accompagnato dal suo ospite personale, niente poco di meno che Albert Einstein! Chissà se il premio Nobel per la fisica può immaginare che di lì a due anni gli Stati Uniti diventeranno la sua nuova dimora a causa dell’ascesa al potere di Hitler. Questa è però un’altra storia.
L’ingresso dei due fa esplodere la sala gremita in un fragoroso e lungo applauso, che i due geni si dividono equamente. Naturalmente io non posso che unirmi alla folla con un sentimento di profonda ammirazione per entrambi. Mi avvicino nella speranza di poter scambiare due parole ma con questa calca sembra davvero impossibile. Riesco però a carpire una frase che Chaplin rivolge ad Einstein: “Vede, applaudono me perché mi capiscono tutti; applaudono lei perché non la capisce nessuno”. L’acutezza dell’osservazione lascia basiti.
Quel che venne trasmesso poco dopo sul più grande schermo di Los Angeles è semplicemente parte della storia. City of lights è ancora oggi considerato all’unanimità uno dei più grandi capolavori del cinema. Un’opera d’arte in grado di mostrare le contraddizioni del sistema economico moderno come solo il genio di Chaplin poteva fare. Tutto questo, senza pronunciare nemmeno una parola.