Ho fatto amicizia con Cesare, un ragazzo per bene, molto appassionato di musica, che lavora nella segreteria dell’Arcivescovo di Milano.
Il programmino di questo mio viaggio lombardo è bello succulento, con Cesare stiamo girando per locali in una città che sta vivendo un gran fermento rock. Poche sere e ho già ascoltato numerosissimi “complessi”, così li chiamano qui: frotte di ragazzi armati di chitarre che indossano pantaloni attillati e stivaletti e, orrore per la generazione “anziana”, si fanno crescere i capelli. Si sono addirittura guadagnati l’epiteto vagamente dispregiativo di capelloni dai media che, tanto è diffuso il fenomeno, non possono esimersi dall’occuparsene, pur solo per scattare un’impietosa quanto fallace fotografia di una cultura bollata come “una di quelle mode temporanee destinate ad essere dimenticate nell’arco di una stagione”. In effetti i nomi sono abbastanza bislacchi: I Profeti, I Giganti, I Bisonti, I Ribelli, Ghigo e i Goghi, I New Dada, I Camaleonti. La scena milanese è un pullulare di gruppi, all’inizio di questo decennio, i ’60.
Anche il fratello di Cesare, Pietruccio, ha un gruppo. Sono Gli Squali, di cui fanno parte Pepe e Lallo. Trascorro una bella serata in compagnia di quest’allegra combriccola, strimpellando le canzoni dei nostri miti (i Beatles) e ascoltando la pirata Radio Luxemburg, sulle cui frequenze passano tutte le novità snobbate dai canali ufficiali. Poi Cesare tira fuori la sorpresa per il fratello e i suoi Squali: è riuscito ad ottenere per i ragazzi la raccomandazione dell’Arcivescovo in persona, per un’audizione alla Ricordi, una delle più importanti case discografiche italiane, che ha sede proprio qui in città.
Le strade del Signore sono infinite, questo lo sapevo. Ma che l’Onnipotente si fosse servito di uno dei suoi ministri in terra per contribuire all’importazione in Italia della musica del suo rivale atavico (il diavolo), non me lo sarei mai aspettato. Si, perchè ovviamente né Cesare né gli altri lo sanno, ma l’endorsement è arrivato da Monsignor Montini, il futuro (neppure troppo) Paolo VI!
Decido di fare un giro a spasso per il decennio, nel panorama musicale italiano ormai i gruppi spopolano. Tornato sotto la Madunina, il 24 giugno del 1965 rivedo con piacere gli Squali al Velodromo Vigorelli in occasione del concerto, manco a dirlo, dei Beatles. La performance dei fantastici quattro di Liverpool dura mezz’ora e dodici canzoni di cui non capiamo assolutamente nulla. Gli impianti dei ’60 sono primitivi e poco potenti e le urla di quasi 20.000 ragazze indemoniate la fanno da padrone.
Poco dopo, davanti a una birra, i miei amici mi raccontano della bella figura fatta al provino e del contratto ottenuto con la Ricordi. Hanno anche cambiato nome al gruppo, ora sono i Dik Dik e nel giro di qualche mese, uscirà il loro primo 45 giri. Della produzione si sta occupando Giulio Rapetti, in arte Mogol e, oltre a una cover di Len Barry dal titolo 1-2-3, il disco conterrà un pezzo firmato da un giovane autore, a cui lo stesso Mogol pare si stia interessando: un certo Lucio Battisti.
Insomma ragazzi, la classica botta di fortuna del viaggiatore del tempo principiante ha fatto si che capitassi nel mezzo di uno snodo cruciale per la storia della musica italiana…e con tanto di benedizione papale! I ragazzi che ho conosciuto sono tra i protagonisti della stagione Beat, che sta attingendo a forme nuove del rock.
È vero, praticamente in Italia nei ’60 si campa di cover, pezzi presi a prestito (anche selvaggiamente) da originali stranieri, però c’è da dire che questi gruppi stanno facendo una grande opera di “evangelizzazione” per conto del rock e dei sottogeneri che in questo periodo stanno prendendo vita. Questo è proprio il caso dei Dik Dik, i cui grandi successi prendono le mosse dalla psichedelia folk dei The Mamas & Papas (Sognando la California) e arrivano alle soglie del rock progressivo con la celeberrima Senza Luce, rilettura italiana di A Whiter Shade of Pale dei Procol Harum in cui pop, rock e tradizione colta si uniscono per dare vita a una musica più ricercata e raffinata. È qualcosa di diverso e nuovo.
L’Italia degli anni Sessanta è una fucina beat vivissima, dalla quale stanno per venire fuori due fenomeni musicali importantissimi, che paradossalmente in breve tempo decreteranno il tramonto del movimento in seno al quale stanno nascendo. Il primo è l’avvento della generazione dei cantautori (Battisti e Mogol sono pronti a lasciare un’impronta indelebile nella storia della musica italiana), il secondo è quello parimenti interessante (che nel nostro paese avrà una tradizione gloriosa) del Progressive Rock, che affonda interamente le sue radici nell’esperienza dei complessi Beat.
Ed è proprio nel 1967, mentre ascolto Senza Luce, che mi si accende il desiderio di ripartire per andare all’origine di queste evoluzioni. Altro viaggio, altra destinazione, siamo sempre sulla strada del rock e, a quanto pare, abbiamo la diretta approvazione dell’Altissimo!