Per fortuna il caldo è sopportabile e mi sto godendo la passeggiata per le vie di Autlan de Navarro, una cittadina di poche decine di migliaia di abitanti (nel 2019 saranno circa 60.000), dove l’atmosfera è quella della festa. Si, il 1953 è un anno che rimarrà scolpito nella storia del Messico. Elvia Carrillo Puerto ha vinto la sua battaglia politica e l’articolo 34 della Costituzione è stato finalmente modificato dal governo del neo presidente Adolfo Ruiz Cortines: la totale uguaglianza dei diritti politici, voto compreso, è finalmente estesa anche alle donne.
Autlan de Navarro si trova nello stato di Jalisco, una regione conosciuta ai più come “la terra dei mariachi e del tequila” e devo confessarvi che la testa mi gira non poco mentre cerco di raccontarvi dell’incontro di oggi. Si beve parecchio, complici il clima mite, i colori mozzafiato del paesaggio e degli abiti dei passanti e, soprattutto, la musica che risuona nella piazza centrale, riempendo di note lo spazio esterno della chiesa, le cui due torri campanarie offrono un gradevole riparo all’ombra per chi come me ha già qualche bicchiere di troppo in corpo.
È emozionante ascoltare brani classici come Besame Mucho, Cielito Lindo, Ay, Jalisco No Te Rajes e la patriottica México Lindo y Querido, del “charro cantor” Jorge Negrete, su cui i più si uniscono in una danza di valzer. Quasi tutti cantano, mentre alcuni anziani si commuovono pensando ai molti che sono stati costretti dalle difficoltà ad andare via: “Messico bello e caro/ Se muoio lontano da te/ Che dicano ch’io son addormentato/ E che mi portino qui”. Ironia del destino, tra pochi mesi l’autore di questi versi morirà a soli 42 anni negli Stati Uniti e sarà riportato in patria accompagnato dalle sue note e dall’intero Messico ancora in cerca dei suoi simboli identitari.
Il gruppo di Mariachi conta almeno una decina di componenti. Nei caratteristici abiti da charro (i cavallerizzi tradizionali) ci sono chitarristi con strumenti di varia forma e dimensione, da chitarroni a liuti, trombettisti, violinisti. Di violini ne conto tre, finchè non ne vedo un quarto sgattaiolare tra le gambe dei suoi compagni: alto poco più di un metro, avrà ad occhio e croce non più di cinque anni.
Uno dei musicisti, alla fine della performance, prende affettuosamente in braccio il bimbo e subito i due sono raggiunti da una signora che accompagna altri bimbi.
Faccio conoscenza di questa numerosa famiglia su una delle panche di legno dove molte persone sono sedute a mangiare degli squisiti tacos. Josè e Josefina hanno sei figli e ne aspettano un settimo.
-Ci sono diverse leggende riguardo all’origine della parola “mariachi”. Qualcuno dice che venga da un canto aborigeno alla Vergine Maria che dice “Maria ce son”, cioè Maria ti amo. Altri dicono che venga dal francese “mariage”, matrimonio. Sai, quando c’erano i francesi qui impararono che noi alle feste di matrimonio suoniamo sempre, dunque ci indicavano come mariachi, quelli dei matrimoni”.
Neppure Josè Santana sa da dove venga esattamente questo termine, a lui piace la musica. È il suo lavoro e ci mantiene la famiglia, a costo di lunghe assenze e viaggi impegnativi. Il quarto dei suoi figli, Carlos, a cinque anni è già in grado di maneggiare con una certa destrezza il violino.
Guardo il bimbo, che intanto sta giocherellando con una chitarra appoggiata alla panca, e improvvisamente ho bisogno di mandare giù dell’acqua per attutire il bruciore del peperoncino con cui è cotto l’ottimo spezzatino di maiale che sto mangiando: Carlos Santana!
Quindi è così che è cominciata l’epopea di una delle più grandi leggende viventi della chitarra, in mezzo alla musica tradizionale della sua terra e all’ombra di un padre e di un nonno musicisti.
Possedere una Macchina del Tempo è la figata più grossa che mi sia mai capitata, salutata dunque la famiglia Santana decido di rivedere il giovane Carlos nel 1960, stavolta a Tijuana. La costa è sempre quella bagnata dal Pacifico, ma siamo più a nord, proprio al confine con gli Stati Uniti. “Aquì empieza la Patria” (qui comincia la patria) è il motto della città, che confina con l’americana San Diego, nella California meridionale.
Carlos Santana si è definitivamente dato alla chitarra elettrica. È un autodidatta talentuosissimo e si mantiene intrattenendo i turisti statunitensi nei locali malfamati della città. La sua strada l’ha già scelta, la professione della musica è l’unica per la quale si sente nato.
Tijuana è terra di confine e porta del Messico, la porta attraverso la quale si stanno riverberando gli echi delle musiche americane. Carlos ascolta John Lee Hooker, T Bone Walker, B.B. King, Muddy Waters. Il Blues, il Rock e il Jazz hanno rapito il giovane chitarrista, che nella musica riesce a trovare nutrimento per la sua spiccata sensibilità e spiritualità, nonostante gli anni passati qui siano stati anni di povertà, difficoltà, bullismo e violenze subiti.
Josè mi riconosce e mi abbraccia.
-Questo posto non fa per noi, proveremo in California-
Il resto della storia credo sia inutile da raccontare. Carlos Santana prenderà parte ai fermenti che in questo decennio modificheranno la storia della musica. Nel 1969 sarà sul palco di Woodstock e così come Tijuana, porta del Messico, Santana sarà per il Messico porta del rock.
Non un rock qualunque, ma un rock latino, profondo e spirituale. Musica di un’anima grande dalla voce inconfondibile nella quale, chi ha orecchie per ascoltare, può facilmente ritrovare le note calde lunghe e vibrate del piccolo mariachi violinista, o le improvvise fiammate veloci dei trombettisti cavallerizzi.
Vado via anche io da Tijuana: il confine inizia a prendere le forme di una barriera e nel 1990, gli stessi Stati Uniti che poco prima salutavano festanti la caduta del muro di Berlino, ne innalzeranno uno lungo 23 chilometri proprio qui. La vecchia porta ora è chiusa da un muro di vergogna.