C’è poco da fare, nell’immaginario comune il videogiocatore è visto come un personaggio tendenzialmente negativo: con una vita sociale quasi nulla, che non esce quasi mai dalla propria stanza, senza alcun tipo di prospettiva. Questa è la considerazione media che si ha del mondo del gaming e, ripeto, purtroppo c’è poco da fare. Tutto questo accade nonostante e malgrado l’evoluzione, sia tecnico-artistica che, soprattutto, mediatica, che questo medium ha mostrato negli ultimi anni. E quest’evoluzione ha avuto anche un risvolto che magari potrà far cambiare la valutazione che le persone esterne hanno dei videogiochi. Perché se è vero che in passato il videogiocatore era per definizione sedentario ed era l’individuo più lontano possibile dallo sportivo, il secondo decennio del ventesimo secolo ha portato all’introduzione di una disciplina che funge da anello di collegamento tra i videogiochi e lo sport: gli e-sport.
La storia degli e-sport parte, in realtà, da un po’ più lontano rispetto al 2010, perché la prima competizione ufficiale di un videogioco risale addirittura al 1980, quando la Atari organizzò un torneo di Space Invaders, che attirò circa 10000 partecipanti. E risale al 1997 il primo campionato virtuale. Ma, a mio parere, è solo negli ultimi anni che questa branca del videogioco ha conosciuto il suo massimo sviluppo. Sono infatti numerosissimi i tornei che vedono competere gli “atleti” (concedetemi questo termine) tra loro. E sono altrettanto numerosi i giochi protagonisti di queste sfide: da Overwatch a Rainbow Six Siege, da League of Legends a Dota 2. Insomma, questo mondo è in continuo sviluppo, e non sembra volersi fermare.
Questa grandissima evoluzione ha portato Rob Pardo (uno dei creatori di World of Warcraft) a proporre di far diventare gli e-sports disciplina olimpica. So cosa state pensando: i videogiochi disciplina olimpica? Come si può paragonare lo stare seduti su una sedia a rovinarsi il cervello allo sforzo fisico di correre per la propria nazione? Ma siamo impazziti? Allora, innanzitutto calma. Prima di sparare sentenze facciamo un passo indietro. Prima di tutto cos’è uno sport? Da vocabolario, uno sport è un’attività che impegna, sul piano dell’agonismo oppure dell’esercizio individuale o collettivo, le capacità fisico-psichiche, svolta con intenti ricreativi o come professione. Dunque, seguendo questa definizione, non c’è alcun motivo per cui i videogiochi competitivi non debbano essere considerati sport. Quello che però desta grossi dubbi ai più è altro, che in qualche modo è legato all’origine del termine stesso.
La parola “sport” proviene dal francese antico desport, che significa “diporto”. Ovviamente non credo che i detrattori dei videogiochi basino le proprie critiche sull’etimologia della parola sport. Sta di fatto però che quello che viene imputato ai videogiochi è proprio questo. Il problema dei videogames è quello di essere un’attività fondamentalmente statica, sia perché si gioca tendenzialmente da seduti, sia perché di “diporto” hanno veramente poco, se non al livello astratto.
Ad ogni modo pare che una sentenza la avremo solo dopo i giochi olimpici di Tokyo 2020 (quindi per Parigi 2024), ma comunque c’è un aria piuttosto positiva a questa introduzione. A mio parere, un’innovazione di questo tipo non può fare che bene al movimento sportivo, sia perché avvicinerà i giovani quantomeno alla visione delle Olimpiadi, sia perché si darà l’importanza che merita ad un movimento, come quello videoludico, che negli ultimi anni ha dimostrato di essere in grado di muovere ed interessare milioni di persone.