Ormai da qualche anno la città di Napoli sta subendo una metamorfosi da molti definita anomala, da altri solo moderna: luoghi abbandonati o degradati vengono riqualificati attraverso istallazioni di arte contemporanea o un’architettura che, talvolta, sembra cozzare con la severa bellezza del centro storico, ma crea un fascino nuovo e magnetico.
Nuovi punti dove l’occhio dei turisti e dei napoletani si ferma. Bellezze non fini a se stesse e, a volte, piene di un denso significato sociale.
E’ il caso della mostra “Pollution, Restituito, Recreation” di Paolo Valerio, anche Paul Valery, professore e sea artist che, attraverso l’utilizzo artistico di rifiuti rinvenuti in mare, ha voluto restituire un’ immagine plastica di quelle gabbie di genere che troppo spesso mettono in stallo la vita delle persone, nonché proprio della metamorfosi che, dal paradigma delle cose, si riflette sull’uomo.
Le sue opere, già visibili lo scorso luglio-agosto nella mostra “Gender Roles, Gender Cages and Surroundings”, nuovamente esposte in occasione dell’apertura del molo San Vincenzo il 19 maggio, hanno la forza della bellezza ritrovata e delle verità lasciate andare, tra le onde, destinate all’oblio.
A lui abbiamo chiesto di spiegarci l’origine della sua arte.
Può parlarci delle gabbie di genere che ha inteso rappresentare con le sue opere?
Le gabbie di genere sono legate in qualche modo agli stereotipi, accoppiati ai pregiudizi che fanno nascere lo stigma nei confronti di chi ha comportamenti diversi dal proprio genere. Ormai uno degli aspetti cui lo stigma è più legato è la femminilizzazione del maschio: questo è spesso evidente nel mondo dell’infanzia, quando bambini vengono presi in giro perché si comportano secondo schemi femminili e viceversa. Tutto ciò è molto delicato, poiché fa spesso nascere terribili episodi di bullismo. C’è un filo rosso tra la mia attività scientifica e quella artistica: la plastica, le reti, le corde che trovo sulla spiaggia hanno a che vedere con la volontà di riconsegnare al materiale una nuova dignità artistica. Molti dei titoli delle mie opere hanno a che vedere con la vita, le relazioni, l’amore.
E il mare che ruolo ha in tutto questo?
Il mare si riappropria di alcune cose. La natura plasma gli oggetti così come fa lo scultore col marmo, depositando conchiglie, cambiando le forme.
Mi ha colpito un profilo instagram dove ci sono immagini, provenienti dalle isole Hawaii, che mostrano gli stessi rifiuti delle nostre spiagge ed è interessante come anche in quel caso vi sia un tentativo i recupero artistico di questo materiale.
La rivalutazione di un posto attraverso l’arte è un progetto ambizioso. Crede che possa trovare una realtà ancora più estesa a Napoli?
Certo. Basta pensare all’ex. OPG, all’istituto Filangieri che sono diventati incubatori di opere artistiche.
Penso alla stessa metropolitana, alla fermata Salvator Rosa, dove tutto il contesto degradato è stato riletto in un’ottica diversa.
L’arte può essere un mezzo che può aiutare a riqualificare i luoghi ed ha anche una funzione educativa: i nostri giovani sono costantemente sollecitati da stimoli artistici.
Tornando alla sua attività da sea artist, come nasce per lei l’opera d’arte?
Tutto nasce da un colpo di fulmine. Poter guardare la materia con un altro sguardo, vedere in quella plastica bruciata qualcos’altro: tutto questo ha a che fare con le emozioni.
Tra l’altro è quello che faccio anche nella mia attività scientifica: studio, rileggo i ruoli delle persone che vengono emarginate e dileggiate. Per ridar loro dignità e renderle protagoniste.