“Volevamo concepire un edificio a immagine del mondo, che evolvesse in funzione dell’orario e della luce al fine di creare l’impressione dell’effimero e del cambiamento continuo”. Così Frank Gehry, architetto della Fondazione Louis Vuitton, spiega questa costruzione da quasi 1 miliardo di Euro a forma di capsula spaziale in vetro scintillante. Ed è proprio il cambiamento, la metamorfosi a definire lo spirito artistico di Cindy Sherman, ospite della Fondazione dal 23 settembre 2020 al 3 gennaio 2021. Una sequela di centosettanta opere ci accompagnano indietro nel tempo sino al 1975, quando Cindy Sherman abbandona la pittura e si dedica alla fotografia.
“Non c’era più niente da dire attraverso la pittura” ammette l’artista. “Copiavo meticolosamente le altre opere, così ho capito che avrei potuto prendere una macchina fotografica e investire il tempo in una mia idea.” Così, ventunenne e innamorata, Cindy Sherman comincia la sua carriera come fotografa. Quarant’anni dopo, fa sempre la stessa cosa, senza ripetersi mai. Oggi, è una delle artiste più pagate al mondo. La foto Untitled #96 del 1981 è stata venduta nel 2011 dalla casa d’aste Christie’s per 3,89 milioni di dollari; un’altra edizione della fotografia era stata venduta l’anno precedente per alcuni milioni di euro.
Ma perché la fotografia della Sherman seduce così tanto collezionisti e visitatori?
“Ciò che desta la mia ammirazione – afferma Suzanne Pagé, direttrice della Fondazione Louis Vuitton – è che fa tutto da sola”. Ed è proprio vero. Cindy Sherman, è fotografa, soggetto e oggetto delle sue rappresentazioni nonché scenografa dell’esposizione. In questo caso, è difficile, se non impossibile, distinguere l’artista dalla sua opera. La mostra appare infatti come un’autobiografia in immagini nelle quali Cindy Sherman si trucca, si traveste e muta di continuo. Modifica il suo volto e il suo corpo fino a renderli irriconoscibili. Ne risulta una magnifica follia: Cindy Sherman è presente ovunque senza essere realmente da nessuna parte.
“Gioco con l’idea di me stessa – ci spiega – ma la mia identità è così legata alla mia opera che amerei essere un po’ più anonima!”. In realtà, Cindy Sherman ama travestirsi fin da bambina. Ultima di cinque fratelli e figlia di una madre dedita al buon costume e alla buona immagine della famiglia, la Sherman è in cerca di attenzioni e in piena insurrezione contro i canoni borghesi. È cosi che nel 1976 realizza la sua prima serie fotografica in bianco e nero. In Untitled A-E, ritrae se stessa in scene della vita quotidiana esagerandone gli stereotipi: appare ora come una donna d’affari, ora come una madre casalinga o ancora come una seduttrice dai tratti esasperatamente inquietanti. Sembra che il talento della Sherman non sia legato solo alla fotografia, ma anche alla metamorfosi. Riesce a fondersi nei diversi contesti che lei stessa immagina e riproduce. Perno della sua opera è dunque un’identità dispersa e disperata, in cerca di se stessa.
Cindy Sherman è poi una femminista suo malgrado. Pur rifiutando tale appellativo, combatte i canoni tradizionali di bellezza e denuncia i cliché attribuiti alla donna. Mette in scena situazioni consuete in cui lo spettatore può percepire gli stereotipi sessuali che lo circondano costantemente senza che se ne renda conto. La sua opera è iperbolica, esagera per rendere visibile l’assurdità del quotidiano. E allora via a volti scomposti invasi da insetti, a clown tristi e spaventosi, a bambole gonfiabili poste in situazioni erotiche per le quali lo spettatore non può che provar disgusto. Ma, a guardar bene, è sempre suo il viso ad esser ritratto. Diviene così il manifesto dell’antiselfie, del rifiuto di ogni narcisismo.
Oggi, Cindy Sherman ha 65 anni. Vive a New York e continua a fotografare, a trasformarsi e a trasformare il mondo in cui vive. Vanta collaborazioni importanti come quelle con Balenciaga e Mac, in cui non rinuncia a trasmettere il suo messaggio di protesta. Sfogliando il suo Instagram s’intuisce fino a che punto l’artista riesca a giocare con la sua immagine caricaturando quei mezzi di cui si nutre la generazione social. L’unica regola? Tener salda la consapevolezza che “la fotografia sa mentire benissimo”.