A Lugnano in Teverina, uno dei Borghi più belli d’Italia, è avvenuta la presentazione dei finalisti del Premio Letterario Lugnano, che alla sua nona edizione ha oramai rilevanza nazionale.
I cinque romanzi editi finalisti sono: Le distrazioni di Federica De Paolis (HarperCollins) – Sciara di Marina Mongiovì (Kalos) – La linea di Lucio Pellegrini (La Nave di Teseo) – I primaverili di Luca Ricci (La nave di Teseo) – Rattatata di Alfredo Speranza (Nutrimenti).
Viola, come ogni giorno, ha portato Elia ai giardinetti del quartiere. Da quando ha avuto l’incidente, poco meno di due anni prima, tutto le è faticoso, quasi insopportabile. Così come sono insopportabili i continui ritardi di Paolo. Per questo, quando lo vede arrivare da lontano, Viola non aspetta neanche che entri nel parco e se ne va. Ma proprio in quel momento lui è raggiunto da una telefonata, deve tornare in ufficio, un impianto di cui è responsabile ha preso fuoco. Elia, che ha solo diciotto mesi, resta solo. Abbandonato al suo destino. In una porzione di Roma grigia e desolata come una landa. Prima che la coppia si accorga che è scomparso passano secondi, minuti. Poi, la consapevolezza. Dov’è Elia? Si è solo allontanato? Qualcuno lo ha preso? Chi può essere stato? C’entrano i Rom del campo vicino? O riguarda il lavoro di Paolo, che da avvocato ha a che fare con persone influenti e corrotte? Oppure potrebbe averlo trovato Dora, l’inseparabile amica di Viola, che Paolo non sopporta? Dopo la vittoria del Premio DeA Planeta, Federica De Paolis torna mettendo in luce tutto il suo talento. Come in un romanzo di Donna Tartt, Le distrazioni compone una sinfonia di sentimenti e generi: indaga nella vita di una coppia, scandaglia le relazioni famigliari, rovescia la realtà, mentre il tempo inesorabile scorre. Federica De Paolis si conferma unica nel raccontare il lato oscuro della normalità, i silenzi, le omissioni, le piccole menzogne e le verità impronunciabili. E, dando corpo a una delle paure più atroci di un genitore, regala ai lettori un romanzo esplosivo e intensissimo, fino allo straordinario, inatteso, finale.
Sciara di Marina Mongiovì
Oltre un aspro e nero confine di sciara, chiuso tra la montagna e la pianura, c’è il paese di Teresa. È un sabato torrido, che si preannuncia come lunghissimo. In una cucina piastrellata, con motivi floreali arancioni e verdi, sotto la guida sapiente della nonna si sta per compiere una vera liturgia. Il rituale, che annata dopo annata imbottiglia il sapore dell’estate, si interrompe nel momento del riposo pomeridiano, quel sonno che è una vertigine, un atto di sospensione che genera fantasmi e fantasie. Un delirio che dal passato e dal chiacchierio confuso conduce a una spirale di fotogrammi e sequenze. Così Teresa si ritrova avviluppata nei suoi ricordi, con personaggi che si rincorrono nello scirocco di un’estate che fa avanti e indietro, dando forma a un intricato impasto di storie. Frequenze di un mondo lontano che, racconto dopo racconto, tramanda la sua eco fino al risveglio.
Il successo. Questa è la stella polare che orienta le vite di Stelio e Angiòla, che sono qualcosa di più di una coppia e forse anche di una famiglia. Lui è un architetto visionario, lei il suo perfetto completamento. Sono megalomani, fragili e sempre in equilibrio. Almeno fino a che il sogno diventa realtà e l’architetto cinquantenne si trasforma improvvisamente in una star internazionale. Intorno a loro, prima di loro e dopo di loro, i frammenti scomposti di una famiglia che attraversa il Novecento ed esplode nel nuovo millennio. In una villa della cintura romana, nell’Eritrea italianizzata, in un appartamento nel cuore del Marais, nella Venezia nebbiosa dei primi anni settanta e nella platea del vorticoso congresso del Partito socialista del 1989, si diramano i destini dei personaggi di questo romanzo. Anita, la primogenita priva di talenti e ambizioni evidenti, il fratello Tullio, fumettista in costante blocco creativo e schiacciato dal peso della famiglia, la sorella Olivia, efebica, caparbia, incapace di realizzare il suo sogno di diventare una campionessa di tennis. E poi i genitori, gli zii, i compagni di sempre. Lucio Pellegrini racconta la storia di una famiglia borghese in un inferno di aspirazioni, incapacità, invidie e tradimenti, a cavallo fra gli anni di Tangentopoli e gli ultimi fuochi di un “secolo breve” che ha prodotto, quali figli di un Dio minore, generazioni tiepide se non già perse.
Un uomo che ha scritto un romanzo e una donna con una passione smisurata per Roland Barthes per quanto tempo possono ignorarsi se frequentano la stessa libreria di quartiere? Presto i due si baciano, in effetti, illuminati dal culto condiviso per i libri. Sembrerebbe una storia destinata a una qualche forma di felicità, eppure la bilancia non è in perfetto equilibrio. La donna sembra custodire un mistero che è anche un dogma intoccabile del suo cuore: spurgare il sesso dall’amore, pretendere un rapporto “bianco”. L’uomo saprà decifrare quel mistero – talvolta così fastidiosamente simile a un’imposizione – o ne rimarrà vittima? E il valore della castità, il tentativo di ritornare vergini così come si fa risalendo la corrente impetuosa di un fiume fino alla sorgente, saprà davvero purificare i sentimenti o non sarà piuttosto una capricciosa forma di idealismo? Mentre lo sbocciare della primavera romana viene descritto giorno dopo giorno nella stesura febbrile e puntigliosa di un diario intimo, la relazione dei due sembra dipanarsi soltanto per creare nodi e garbugli ancora più consistenti – come avviene spesso in amore, sempre nella vita.
Un romanzo che racconta, fra ironia e paradosso, l’impetuosa lotta per la sopravvivenza, tra storie di migrazione e una Roma marginale, molto diversa dalla Grande Bellezza. Una scorribanda tra realismo e fantasia che, senza mai cedere a facili didascalismi o moralismi, sceglie piuttosto la lievità, la dolcezza, la musica della lingua: tutto per guardare in faccia cos’è migrare, di chilometri o millimetri, per noi umani. È in bella vista sotto i nostri occhi che talvolta si nascondono certe verità degli esseri umani. C’è quest’ansa del Tevere, per dire: Porto Giordano. Minuscolo lembo di terra dove si spalanca una Roma eccentrica, tana e territorio di una tribù di ratti su cui veglia, guida e madre, la Ratta. Decine, centinaia di esemplari che prosperano colonizzando, finché l’urto di inondazioni e disastri li costringe a migrare. A sottrarsi da agguati di terra e di cielo. A difendersi dagli uomini. Non tutti gli uomini, però, non tutte le donne. A Porto Giordano c’è infatti una coppia di anziane e memorabili sorelle, Lidia e Faustina, che sperimentano per l’umanità sintonie, convivenze, su cui i più non posano lo sguardo. E c’è uno Scrittore che ha la voglia e lo spirito di scoprire, osservare, conoscere, appartenere a quell’umanità, diventare compilatore di storie migranti che dicono migrazioni: dall’Africa a Coney Island, dal bar Pedrelli ritrovo di intellettuali e intellettualini a Villa Solesia, clinica per i disturbi della memoria, fino al Chilometro, un segmento pasoliniano di stradone che non viene e non va da nessuna parte fiancheggiando cento casette. Quella di Alfredo Speranza è un’architettura narrativa che intreccia sapientemente passato e presente, geografie e storia: forse perché la scrittura stessa è migrazione, è ascoltare storie che arrivano e vanno, è scrivere storie che andranno e torneranno.