Fabiana Iacozzilli, dopo la Classe, continua a trasformare la riflessione autobiografica in materia scenica dal valore universale; qui si interroga sulle paure relazionate alla maternità: la paura di diventare madre, quella di non diventarlo e ancora, sulla paura di dire di non voler essere madre. Sul palco, c’è una donna con una pancia enorme che si è cucita la vagina con una corda a cui ha fatto un grande nodo scorsoio per impedire al pargolo di venire al mondo. È incinta da un tempo indefinito e da un tempo infinito trattiene e ritarda l’evento.
«Siamo in uno spazio dell’anima, in uno spazio in cui l’anima gesticola e ci fa interrogare sulla nostra condizione di donne e uomini perennemente in bilico tra il voler essere genitori e il rimanere figli, ma anche su un’altra questione: nel momento in cui dai la vita a qualcuno lo stai più semplicemente condannando alla morte? – dice l’artista – Nel corso di questo processo artistico, come già avvenuto per il mio precedente lavoro La classe, ho capito la natura del progetto nel momento in cui mi sono davvero messa in ascolto della materia che stavo indagando. Questo momento è avvenuto quando mio padre si è ammalato e, a mio avviso, per l’essere umano che sono, ho fatto qualunque tipo di cosa enorme per lui. […] Lo spettacolo è dunque diventato un oggetto emotivo che s’interroga sulla paura e sul desiderio dell’abbandonare se stessi alla cura di un altro essere umano, che s’interroga su una questione che appartiene a ogni donna, alla sua condizione esistenziale – che sia madre o che non lo sia – e che ha a che fare con una domanda semplice ma per niente consolatoria: “forse, alla fine, si è madri comunque?».
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