Il grande scrittore e intellettuale di lingua slovena di Trieste, Boris Pahor, è morto il 30 maggio dopo lunghe sofferenze che non gli avevano tolto però la capacità di ragionare lucidamente, quando i dolori si allontanavano per qualche istante, e di accomiatarsi dalle persone care con una frase detta con grande fatica e una parola di complicità. Aveva 108 anni.
Nato a Trieste nel 1913, Pahor è considerato il più importante scrittore sloveno con cittadinanza italiana e una delle voci più significative della tragedia della deportazione nei lager nazisti, raccontata in Necropoli, ma anche delle discriminazioni contro la minoranza slovena a Trieste durante il regime fascista, L’intellettuale, testimone in prima persona delle tragedie del Novecento, ha scritto una trentina di libri tradotti in decine di lingue.
Vogliamo ricordarlo citando alcuni dei suoi meravigliosi scritti.
Necropoli
Campo di concentramento di Natzweiler-Struhof sui Vosgi. L’uomo che vi arriva, una domenica pomeriggio insieme a un gruppo di turisti, non è un visitatore qualsiasi: è un ex deportato che a distanza di anni è voluto tornare nei luoghi dove era stato internato. Subito, di fronte alle baracche e al filo spinato trasformati in museo, il flusso della memoria comincia a scorrere e i ricordi riaffiorano con il loro carico di dolore e di rabbia. Ritornano la sofferenza per la fame e il freddo, l’umiliazione per le percosse e gli insulti, la pena profondissima per quanti, i più, non ce l’hanno fatta. E come fotogrammi di una pellicola, impressa nel corpo e nell’anima, si snodano le infinite vicende che parlano di un orrore che in nessun modo si riesce a spiegare, ma insieme i tanti episodi di solidarietà tra prigionieri, di una umanità mai del tutto sconfitta, di un desiderio di vivere che neanche in circostanze così drammatiche si è mai perso completamente.
Così ho vissuto: Biografia di un secolo
Il Novecento è il secolo di Boris Pahor: ne ha vissuto gli orrori e le conquiste, facendosene testimone per eccellenza. Il racconto della sua esperienza esistenziale è dunque una narrazione etica e viva, densa di avvenimenti e aneddoti che seguono un tracciato cronologico mai banale o scontato. La sua biografia si sviluppa attraverso questo racconto, reso da Pahor in prima persona, contestualizzato da Tatjana Rojc e compiuto nelle pagine, anche inedite, di uno dei più grandi scrittori sloveni viventi. Non si tratta solo di una biografia ma anche di una storia di Trieste, storia in cui si specchia quella di tutto il Novecento europeo. Così, accanto alle vicende vive, in presa diretta, di Trieste, della comunità slovena e delle altre comunità che arricchivano e ancora arricchiscono la città, accanto alla cronaca potente della disgregazione dell’impero asburgico, della Grande guerra, dello squadrismo e del fascismo, si snoda la testimonianza dell’autore, che ripercorre l’infanzia poverissima, l’esperienza della guerra in Africa, l’adesione al Fronte di liberazione sloveno e la deportazione nei campi di concentramento nazisti, e infine il difficile ritorno alla libertà e alla vita. Narrare con lucidità quasi oltre umana la quotidianità di un’esperienza oltre il limite: questo è ciò che fa Pahor. Vorremmo ancora leggere sue nuove parole, poter cogliere in esse un senso che stringa insieme due secoli (di cui uno appena iniziato) di vita europea; individuare grazie a lui un senso ulteriore per le nostre esistenze caotiche. Da uno come lui che dal caos non si è fatto irretire e continua a guardarne in faccia le derive contemporanee, attuali.
Triangoli rossi: I campi di concentramento dimenticati
“Ogni Giorno della memoria si ripete sempre nello stesso modo: si parla molto di Auschwitz, si parla di Birkenau o Treblinka, di Buchenwald o di Mauthausen, ma quasi mai di Dora-Mittelbau, di Natzweiler-Struthof e altri campi riservati ai Triangoli rossi, i deportati politici. E spesso mi risentivo, qualche volta a voce alta, non perché sono stato un Triangolo rosso anch’io, bensì perché avere sul petto, sotto il numero che sostituiva il nome e il cognome, il triangolo rosso, significava che ero stato catturato perché come soldato non mi ero presentato all’autorità militare nazista, ma avevo scelto di oppormi in nome della libertà. Ecco, questa era la ragione del mio risentimento: bisognava ricordare come l’opposizione nei diversi paesi si fosse organizzata anche in resistenza attiva, certo soprattutto clandestina, ma non solo.” Boris Pahor La storia dei “Triangoli rossi”, com’erano soprannominati i detenuti politici arrestati per attività antinaziste e condotti forzatamente nei campi di lavoro, è poco nota, ma torna alla luce in questa eccezionale testimonianza di Boris Pahor, in un racconto appassionato, documentato e coraggioso.
La città nel golfo
Nel 1943, nell’Italia occupata dai nazisti, uno studente in Legge sloveno – Rudi – getta la divisa e si rifugia sui monti. Preso il treno per andare verso la sua città natale, incappa in un commando di tedeschi a cui sfugge miracolosamente trovando rifugio in campagna.È qui che viene accolto dalla diciottenne Vida, una ragazza sognante, pervasa da ideali forse ingenui ma profondi e da un desiderio irresistibile di andarsene, di cambiare l’orizzonte della sua vita. Rudi si sente molto attratto da lei, ma non tollera il fatto che Vida rinneghi la propria slovenità. Il senso di inferiorità culturale che la ragazza esprime con le sue scelte lo irrita profondamente e lo spinge a riaffermare, per contrasto, le proprie radici, rievocando episodi e aneddoti che hanno segnato la sua vita e quella della comunità slovena in Italia dopo la fine della Grande Guerra e l’avvento del fascismo. A confondere ancor di più sensazioni e sentimenti sopraggiunge una ragazza che Rudi aveva conosciuto in treno: Majda, una staffetta partigiana, incaricata di portarlo da suo fratello. Rudi entra così in contatto con la lotta armata. Ma è questa lotta, dalla cui fascinazione non riesce a liberarsi, che lo condanna all’isolamento. La sua vita non può concedersi all’amore, tutti i ruoli imposti dalla Storia non possono essere dismessi, ad ogni costo.Affresco della Resistenza e moderna epopea dell’uomo umiliato e offeso, ma capace di rinominare le cose proprio mentre si guarda alle spalle e traendo forza da quello sguardo per vedere un futuro davanti a sé, inizia con questo romanzo la riproposta delle opere di un grande narratore contemporaneo, che ha posto al centro del suo scrivere i dilemmi dell’identità nazionale e storica.
Figlio di nessuno
Queste sono le memorie di una “cimice”: così infatti l’Italia fascista definiva apertamente gli sloveni, “figli di nessuno” per un quarto di secolo. Sono i ricordi di un ragazzo derubato della sua cultura. Di un prigioniero che lotta per sopravvivere. Di un marito e padre aspro e intenso. Di un uomo libero. Dall’infanzia poverissima segnata dalle discriminazioni alla Resistenza, dalla guerra in Libia alla scoperta dell’amore, dall’impegno politico a quello letterario, Pahor traccia in questo libro il bilancio senza reticenze di una vita trascorsa ad attraversare confini fisici e spirituali, e solleva un velo sugli aspetti più privati del suo passato regalandoci un autoritratto inedito e umanissimo. Trovano posto in questa narrazione le passioni intellettuali e gli amori in carne e ossa: quello travolgente per Arlette, la ragazza francese conosciuta in sanatorio all’indomani della liberazione e che lo restituì alla vita, l’inquieta relazione con Danica, giovane antifascista trucidata insieme al marito dai collaborazionisti sloveni o dai comunisti in un mistero ancora non risolto. E poi il matrimonio con la bellissima Rada, permeato da una profonda condivisione ma segnato da assenze e allontanamenti sentimentali. Mentre sullo sfondo si delinea uno scorcio potente del secolo scorso che restituisce alla memoria la storia degli sloveni dei nostri confini orientali, in un intreccio di eventi storici e vissuto privato. “Non ho paura della morte come tale, è più il dispiacere infinito di perdere la vita. Certo, anche il mistero imponderabile di ciò che c’è dopo mi provoca inquietudine. Ma più di tutto mi dispiace perdere le cose positive della vita: le donne che ho amato, e la natura” riflette Pahor in pagine memorabili sul senso e il pensiero della fine. E alle soglie dei cento anni ci regala il privilegio di accompagnare un grande uomo e un grande testimone nel suo più intimo viaggio nel passato e nel futuro.
Il petalo giallo
Un maturo scrittore sloveno, reduce dai campi di concentramento nazisti, riceve un giorno l’insolita Iettera di una sconosciuta, che in modo allusivo paragona il male da lei subito nell’infanzia con gli orrori della deportazione e dello sterminio. Una confessione indecifrabile, un segreto gelosamente custodito per tanti anni. Solo a poco a poco lo scrittore comprenderà quale sia la prova dolorosa e indicibile che ha segnato per sempre la giovane donna e che fatalmente li accomuna: entrambi hanno subito l’estrema violazione del corpo, annientato nei lager o aggredito dalla più nascosta, ma non meno devastante, violenza familiare. E solo nella profondità di un eros ritrovato i loro corpi sapranno riguadagnare equilibrio e fiducia, riscattando la dignità offesa. Un romanzo coraggioso che illumina – con la dolente lucidità di cui Pahor è maestro – il paradosso della ragione umana, insieme fonte di bellezza e di distruzione. Pagine intrise di memoria, individuale e collettiva, che scavano in quelle libertà negate o soffocate da cui sempre riverberano domande irrisolte, esistenze inquiete, conflitti mai pacificati.