Analizzare l’ultimo film Disney-Marvel Black Panther esclusivamente come il nuovo capitolo del Marvel cinematic universe è da miopi. Si sceglie di voltare il capo alla tematica principale del film: spiegare con orgoglio ed entusiasmo cosa vuol dire avere discendenze africane, e creare modelli di riferimento per tutti i bambini e gli adolescenti. E l’hanno fatto nel migliore dei modi, affidando il film a Ryan Coogler (Prossima fermata Fruitvale Station, Creed) e a un cast diviso tra internazionale con africani, afroamericani e inglesi. Il film è riuscito anche a dimostrare che un blockbuster che gravita sulla diaspora afroamericana può rivelarsi economicamente conveniente, scongiurando il timore di altri registi di rischiare il flop. Ma Coogler e la Marvel non si sono tirati indietro: il film aveva già incassato 462.2 milioni di dollari solo nel primo weekend, rivelandosi il secondo opener più proficuo dopo The Avengers. La Disney-Marvel ha saputo coniugare astutamente i propri interessi e quelli del popolo, creando un film che può spianare la strada a più eguaglianza nel mondo del cinema.
(Spoiler su Civil War ->)
La storia inizia immediatamente dopo l’ultima apparizione di T’Challa/Black Panther (Chadwick Boseman) in Captain America: Civil War, ovvero dopo la morte di suo padre T’Chaka (John Kani e Florence Kasumba) nell’attentato all’ONU. T’Chaka torna quindi in patria, il Wakanda: uno stato africano, quasi paradiso terrestre, dotato di infinite risorse per via della loro enorme scorta di vibranio. Qui prende il posto del padre, diventando il nuovo sovrano. La sua prima missione sarà quella di recuperare del vibranio rubato sotto il governo del padre. Da qui le cose si complicheranno e T’Chaka rischierà persino il trono.
Come ci insegna Hitchcock è il nemico a fare il film, e i nemici migliori spesso sono quelli che hanno il potenziale per essere gli eroi: Erik Killmonger (interpretato da un fenomenale Micheal B. Jordan) è la perfetta controparte di T’Challa. Alla bontà e al rigore morale tipici di ogni supereroe si contrappongono la rabbia cieca e la disperazione. Antenati schiavi, una vita senza prospettive, essere abbandonati dal sistema e circondati dal crimine che spesso rappresenta l’unica via d’uscita – tutto questo pesa sulle sue spalle. Ma lui non si arrende: riesce a diventare un black-op (soldato specializzato in colpi di stato) e organizza la sua vendetta personale. Un personaggio dai mille nomi, che non possiede niente se non il suo dolore e la speranza di riuscire a riscattare tutti i suoi fratelli afroamericani nel mondo- speranza che ha ben poco di malvagio. Ed è lui la colonna portante di qualsiasi parallelismo con il mondo contemporaneo.
Il film, tralasciando l’impatto politico-sociale che ha con sé, condivide le stesse caratteristiche di un qualsiasi altro film Disney-Marvel: visivamente accattivante, ma qualitativamente lascia un po’ a desiderare. La trama sembra ingranare un po’ con difficoltà e i dialoghi risultano sempre essere la parodia dei baloon – d’altronde la trasposizione dal fumetto alla pellicola di certo non è un compito facile. Ma le coreografie dei combattimenti sono ben studiate e mirano a rendere più naturalisticamente possibile gli stili di combattimento africani. Gli effetti speciali e il design raggiungono un nuovo livello, generando da zero una vera e propria nazione, con le proprie caratteristiche geografiche, naturali e architettoniche. Ma la vera grandiosità sta nei costumi, che comunicano lo status sociale di ogni personaggio e completano questo ibrido tra mondo occidentale e mondo africano.