C’è una questione che il fumetto mainstream e la serialità in generale fanno fatica ad affrontare: quella della eredità. Come assicurare il compimento di un racconto, se proprio gli eroi più famosi ed economicamente rilevanti, devono essere protetti dalla definitività della fine? Oppure, come assicurare la liberazione creativa di tutte le risorse drammatiche di un personaggio? Non che il fumetto, anche quello seriale, non ci sia mai riuscito. Ma resta un’operazione molto rara e difficile. Uccidere un personaggio, o anche solo farlo invecchiare, vuol dire scontentare i fan, rinunciare al loro denaro. Magari proprio dopo il “numero finale” ha contribuito all’acme del suo successo. Meglio è allora asservire la “fine” dell’eroe all’infinito appetito delle esigenze commerciali (Vedi il fumetto americano). Oppure cristallizzarlo in un appartamento londinese, nell’eterno ritorno di una vita sempre uguale, fatta delle stesse paure, delle stesse manie, dei soliti passatempi.
Ma in un racconto drammatico la morte è necessaria. Gli eroi antichi muoiono. Gli dei muoiono. Così come muoiono i protagonisti tragici di ogni grande narrazione. E ovviamente gli esseri umani reali, quelli in carne e ossa. Un universo, immaginario o reale, è indipendente da chi lo abita. Le sue gesta non sono che una parentesi. Il mondo è sempre più grande dell’individuo. Cosa resta di lui allora? L’eredità, appunto.
Nel caso dell’eroe immaginario, le gesta restano all’interno della finzione diegetica. Il loro compimento produce effetti, devia nel racconto il corso del suo mondo. E dunque ciò che lui ha fatto, ciò che è stato raccontato, influenza chi viene dopo di lui, i personaggi dei cicli successivi. I suoi eredi. Ma anche all’esterno della finzione diegetica avviene qualcosa. Anche nel mondo in cui quegli avvenimenti non sono che racconti, essi non di meno esistono come parole. E come parole producono effetti.
L’eredità di un personaggio può essere declinata in due modi diversi, quello soggettivo, che abbiamo appena visto, e quello oggettivo. L’”eredità di Dylan Dog” può essere letta innanzi tutto, in senso soggettivo, nel significato di un compimento e una continuazione del personaggio. Che rinvia alla possibilità (e necessità) che il personaggio venga superato e raggiunga un suo compimento nella fine, per permettere che nuove idee prendano il suo posto, portino avanti idealmente e narrativamente, le suggestioni e le istanze che lui aveva incarnato. Una cosa molto difficile e piuttosto rara nel fumetto mainstream, come abbiamo visto, che vive spesso di epopee cicliche e incompiute. Al momento il destino di questa serie non fa eccezione: “Pereat Mundus. Fiat Dyland Dog!”. Purché le sue avventure continuino con lo stesso volto, venga pure l’Apocalisse, in una inversione completa dell’eroe nell’epos. D’altro canto, se di Dylan è un “anti-eroe”…
Ma forse il motivo di questa soluzione è un altro. Affinché questo compimento nella morte avvenga, è necessario prima di tutto riavviare la carica drammatica del personaggio, restituirlo alla dimensione temporale, appropriandosi della sua eredità in senso oggettivo. Se Dylan può avere un’eredità, è innanzi tutto perché lui rappresenta un’eredità. O meglio può diventarlo. Affinché sia restituito al tempo dei suoi scrittori, e produca frutti, in quanto eredità del suo creatore, deve prima di tutto essere sottratto all’ombra di Tiziano Sclavi e al suo tempo.
La gestione di Dylan Dog operata da Roberto Recchioni affronta dichiaratamente la questione fin dal primo momento. Fra mille polemiche più o meno centrate, più o meno condivisibili. Un progetto che diede i primi significativi frutti nella nuova gestione dell’annual, che a partire dal n. 29 (La casa delle memorie, 2015, Bilotta e Casertano) ospita la serie spin-off “Il pianeta dei morti”. Un modo per ridare al personaggio la quarta dimensione: quella del tempo.
Il numero 400 – “E ora l’Apocalisse”, di Recchioni, Stano, e Roi, è l’epitome, nel bene e nel male, di questo progetto. Rigorosamente a colori (di Giovanna Niro) come tutti gli speciali, l’apocalisse a lungo attesa (e paventata) nel Ciclo della Meteora è finalmente giunta. Nel numero precedente la natura finzionale del personaggio e del suo mondo è finalmente emersa, grazie all’elaborato piano di John Ghost. Così, cancellata ogni coerenza, distrutti tutti i riferimenti spaziali, Recchioni può guidare Dylan Dog verso le sue origini, nel tentativo di liberarlo dalle secche in cui lo vedeva impantanato. Per farlo immagina Dylan alle prese con un viaggio metatestuale (l’ennesimo, come scrive nel volume) “alla ricerca della propria identità”: dal mare aperto, fino a risalire il fiume, direttamente nella grotta/camera di Tiziano Sclavi, ingombra come la sua mente – e come la casa di Craven Road – di gadget, action figure e poster.
Ecco, le citazioni: un elemento onnipresente nel volume, che con una serie vertiginosa di rimandi e autorimandi, riprende con forza una delle caratteristiche che avevano fatto grande la serie ai suoi albori: quella capacità tutta post-moderna di Sclavi di giocare con i suoi lettori, di sfidarli a trovare la miriade di riferimenti culturali più o meno nascosti all’interno delle sue storie. In Dylan Dog Sclavi ha sempre mischiato la cultura considerata “alta” a quella considerata “bassa”, mostrando quanto tale confine sia tutt’altro che ovvio, anzi labile e spesso frutto di preconcetti. Come quella volta che trasformò Umberto Eco in un personaggio dylaniano (“Lassù qualcuno ci chiama”, N. 136 del gennaio 1998).
E da par suo Eco dichiarò “Posso leggere La Bibbia, Omero e Dylan Dog per giorni e giorni senza annoiarmi”.
Reinvestendo così prepotentemente nel citazionismo sclaviano, Recchioni sembra tentare un’operazione vertiginosa di meta-citazionismo, una sorta di post-modernità al quadrato: per tornare alle sue origini, Dylan si circonda di tutti gli elementi che hanno accompagnato la sua vita, e caratterizzato la serie: Groucho innanzi tutto, per (a quanto pare) un’ultima avventura assieme; l’immancabile clarinetto; la pistola; il diario, che per l’occasione diventa diario di bordo; e infine il modello di galeone eternamente in fieri, diventato, ai confini di questa eternità, un veliero completo e pronto a salpare. Non a caso sono i quattro oggetti al centro delle quattro copertine: quattro citazioni alla serie stessa, diventata a sua volta un caposaldo della pop culture. Così, tramite e attraverso quegli oggetti torna lo stesso citazionismo, costante più ideale stilistica ma altrettanto fondamentale. Il gioco qui diventa qualcosa di più: il recupero di una identità stilistica, parte di una eredità con cui fare i conti. Ma anche il mezzo, del tutto post-moderno, di rompere la quarta parete (e la terza, e la seconda…), per inserire l’opera narrativa direttamente nella società di cui fa parte, per dare più solida gravità al personaggio, anche se al prezzo di indebolirne la consistenza diegetica.
Questo vertiginoso gioco di rimandi ha come perno centrale “Cuore di Tenebra” di Joseph Conrad. L’autore lo dichiara nella introduzione al volume, e subito dopo in apertura, accompagnando le primissime vignette con i versi di The End dei Doors. La canzone fu infatti la colonna sonora di Apocalypse Now di Coppola, a sua volta trasposizione cinematografica del libro di Conrad. Ma Conrad stesso tornerà qualche tavola dopo, nella bonaccia presa da un altro suo libro: La linea d’ombra. Come a dire che quello di Dylan è un viaggio verso le origini, reso necessario da un momento di quiete che “non assomiglia per nulla alla pace”. Un momento di ristagno, di guerra sopita ma eternamente presente. E i più maliziosi potrebbero leggere qui un riferimento alla nostra quotidianità social…
È il momento di una trasformazione. È il momento di far “rotolare la pietra”, come si dice ancora nell’introduzione. Ma per farlo bisogna andare alla fonte, e uccidere il padre: la figura di Sclavi è diventata ingombrante. Così ingombrante da non permettere più al fiume di scorrere. Lo denuncia la grandezza oppressiva con cui è rappresentato, citazione grafica al Kingpin di Miller. Lo stesso Sclavi lo sa, lo ha dichiarato in qualche modo proprio a proposito di questo numero. È lui il primo a voler lasciare libera la sua creatura, consacrandola definitivamente nel novero degli “eterni”, come a sua volta fece Hugo Pratt per Corto Maltese ne “Le Elvetiche”. Dunque la complessa costruzione un omicidio rituale (ancora “Cuore di tenebra”), per appropriarsi di quell’eredità, per restare fedeli alla fonte tentando al fiume di tornare a scorrere in un mare non più piatto. Ad accompagnarlo per l’ultimo tratto non più Groucho, il fedele assistente di una vita, ma una figura in grado di ricollegare idealmente l’ultimo sceneggiatore al primo, l’inizio con la (temporanea fine): l’avatar della sofferenza, che Roberto Recchioni ha utilizzato così spesso, fa qui le parti della madre ideale di Dylan. “Senza sofferenza non c’è creazione” dice lei stessa. Fu in fondo proprio il rapporto con la sofferenza e con l’orrore a spingere originariamente Sclavi a creare un “indagatore dell’incubo”: una figura (anti)eroica e umanissima, che svelasse i misteri del lato più mostruoso e doloroso della propria e altrui umanità.
Dylan Dog n. 400 – E ora l’apocalisse!
Autori: Roberto Recchioni, Angelo Stano, Corrado Roi, Giovanna Niro
Editore: Sergio Bonelli
Prezzo: € 3,90, 16×21 cm, colore, pp. 96