Il termine fragile, dal latino fragĭlis, derivazione di frangĕre, “rompere”, descrive una condizione psicologica che non è di facile descrizione. Diverse sono le ricerche e gli studi che hanno approfondito il tema della fragilità: dalla psicologia alla sociologia, dalla filosofia alla letteratura, fino ad arrivare al mondo dell’Arte, come la musica, il cinema, il teatro, la pittura e la scultura. Un approccio molto interessante e di notevole valenza è visibile nella mostra personale dell’artista Antonella Romano, dal titolo, “Fragile”, allestita nelle sale di Palazzo “Fondi”, in via Medina 24, a Napoli, curata da Anna Cuomo, fino al 31 luglio 2020. Prodotta da Le Nuvole/Casa del Contemporaneo, l’exihibit si colloca nella sezione dedicata alle arti visive della XIII edizione del Napoli Teatro Festival Italia, la quarta diretta da Ruggero Cappuccio, realizzata con il sostegno della Regione Campania e organizzata dalla Fondazione Campania dei Festival, presieduta da Alessandro Barbano.
Attraverso la sua esperienza attoriale, la Romano approfondisce un tema molto delicato con esiti sorprendenti. La consapevolezza e il lavoro teatrale diventano un medium per esprimere concretamente e visivamente, in forme plastiche, le fragilità dell’individuo. Le sue sculture sono una trasposizione tangibile di sentimenti nascosti. E’ un percorso espositivo che si sviluppa in cinque sale, come una successione di scene teatrali che compongono un atto unico, rendendo lo spettatore protagonista. Il ferro è il materiale che, in alchimia, simboleggia l’energia, la potenza, la resistenza e la resilienza, ma quando parliamo di fil di ferro, subito emergono dal fondo della memoria immagini di barriere, trincee e divisioni. In questo caso la creatività artistica della Romano ribalta completamente il punto di vista. Con un rituale lento e laborioso ricama chilometri di fil di ferro con dedizione certosina, forgiando figure leggere e delicate, dense di significati e significanti.
“Fragile”- Antonella Romano
Osservando le sue sculture si nota una alternanza di pieni e di vuoti in cui emerge tutta l’essenza dei soggetti, caratterizzati da una anima intima e pura, scevra da qualsiasi costruzione artificiosa. La sua natura geniale sta nell’innescare nel visitatore un processo di immedesimazione, per restare in ambito teatrale, con delle analogie al metodo Stanislavskij, allo stile di insegnamento della recitazione messo a punto da Konstantin Sergeevič Stanislavskij nei primi anni del ‘900, basato sull’approfondimento psicologico del personaggio e sulla ricerca di affinità tra il mondo interiore del personaggio e quello dell’attore; in questo caso fra opera d’arte e osservatore, eliminando la componente razionale del “metodo” a favore della manifestazione emotiva spontanea e istintiva.
“Donne fra le nuvole”- Antonella Romano
La fragilità è il tema centrale, condizione che tutti accomuna e che tutti nascondono. L’invito dell’artista è, in questa indagine, riscoprire l’essere fragile come opportunità, come strumento attraverso cui ricucire le fratture dell’anima e ritrovarsi con sguardo rinnovato di fronte a sè stessi. Restando nel campo delle “emozioni” e del teatro, interessante è il parallelismo fra la creatività artistica della Romano e il metodo di Lee Strasberg, della memoria sensoriale ed emotiva. A differenza della memoria emotiva (che ci fa ricordare le emozioni che abbiamo provato in un determinato momento), quella sensoriale ci permette di richiamare qualcosa che nel passato abbiamo percepito con uno dei nostri cinque sensi. È probabile che, quando cerchiamo di richiamare alla memoria un dato istante, ci venga in mente prima di tutto una immagine, perché la vista è il senso che usiamo più spesso. Le sculture della Romano generano nell’osservatore questo percorso introspettivo in cui riconoscersi, dove si parte dall’immagine, dalla tridimensionalità dell’opera per giungere ai propri “paesaggi dell’anima”.
“Farfalla”- Antonella Romano
Un modus operandi minuzioso e artigianale, in cui si nota un certo virtuosismo stilistico, a cominciare da un materiale meno malleabile come il fil di ferro, da cui maglia dopo maglia prendono origine forme morbide, anse e incavi di donne, fiori dai lunghissimi steli e piccolissime farfalle. Una creatività incessante, capace di creare sculture ardite e sperimentali, contaminando la tradizione colta del pensiero umano, della psicologia, con la manualità della materia, della lavorazione del fil di ferro. Una sperimentazione che la lega al teatro di ricerca di Leo de Berardinis, eversore, capace di creare un linguaggio audace, che sceglieva la devianza e la marginalità, contaminando la tradizione dotta di Shakespeare, Cervantes, Dante e Pirandello, con la comicità popolare.
“La mia relazione con l’arte nasce per mezzo del teatro, il quale non è soltanto una metafora della vita, ma una tecnica di svelamento – spiega l’artista – L’attore coincide con l’uomo per cui il lavoro attoriale prevede un attraversare, un conoscere e uno svelare. L’importanza della vita, le relazioni, lo sguardo verso la creatività, la negazione, la malattia, il mutamento sono il respiro della ricerca scenica ed artistica. La consapevolezza e la forza dell’espressione corporea in uno spazio scenico mi hanno portato a porre sempre più una particolare attenzione all’essenzialità di un corpo in movimento, in uno spazio vuoto, fino a sentirne la necessità di trascenderlo e plasmare la materia utilizzando l’esperienza acquisita. Abito lo spazio che sarà abitato dalla materia per concepire l’opera, sentendo l’area con cui dovrà dialogare la mia creatura. Il tutto nasce dal bisogno di relazionarsi, dalla necessità dell’incontro, per cui non è un lavoro nello spazio, ma un lavoro con lo spazio”.