Torna “Skin Taste”, il progetto a cura di Adriana Rispoli, giunto alla quinta edizione, che dal 2013 dona alla facciata di oltre 250 metri quadrati del “Porto Fluviale” di Roma un volto nuovo, assegnando ogni anno a un artista il compito di creare una grande opera site-specific in carta da manifesto. “Skin Taste” ha come finalità la riqualificazione estetica dell’area metropolitana, con la missione specifica di generare una sinergia tra l’arte e l’enogastronomia. Il Porto Fluviale, attualmente ristorante, ma anche luogo di incontro, occupa gli spazi di un capannone degli anni Cinquanta, adibito nel corso degli anni a opificio, magazzino e deposito, tra Trastevere, Piramide e Testaccio. Dopo gli artisti Mariangela Levita, Flavio Favelli, Giuseppe Stampone, Igor Grubic, Raffaela Mariniello, quest’anno l’interpretazione della “pelle” dell’ex opificio è stata affidata all’artista romano Danilo Bucchi, noto per la maestria dei suoi interventi urbani di grandi dimensioni, con l’opera “Paesaggio Sospettato”, fino al 30 aprile 2019.
Con un segno pittorico a primo sguardo astratto, ma denso di narrazioni silenziose, Bucchi ci introduce in una dimensione “altra”, in cui una figurazione appena accennata parla direttamente all’inconscio dello spettatore. Come in uno screen play surrealistico, i sei pannelli indipendenti e sciolti da una lettura spazio-temporale, sembrano restituire un intimo flusso di coscienza. In un’alternanza di piani, ominidi iconici del linguaggio dell’artista, assimilabili alla tradizione novecentesca dell’automatismo psichico, vivono un “paesaggio” intervallato da violenti tocchi di rosso e puntellati da accenni alla vita domestica. Apparentemente ludico, ma a tratti inquietante, il lavoro di Bucchi è insieme onirico e realistico concedendo allo spettatore il potere dell’interpretazione e magari dell’immedesimazione.
Come scrive Achille Bonito Oliva: “Per Bucchi la pittura è il campo delle applicazioni, il luogo in cui deflagrano forze ed energie necessariamente in collisione tra loro, tra astrazione e figurazione. Se nell’arte del passato il pittore usava la propria manualità al servizio di una visione unitaria del mondo dell’arte contemporanea, Bucchi opera per affermare la centralità del frammento. Una costellazione di dati interiori da irruzione sul campo della visione, introducendo nell’immagine la forza emergente e discontinua del particolare. L’opera rappresenta una rotta di collisione tra libertà gestuale che domina la mano, al limite dell’automatismo, e la descrizione di un paesaggio appena sospettato, a rappresentare l’incontro tra il caso e la disciplina pittorica. Bucchi non vola svincolato nella verità della materia, egli non vuole trasformare l’arte in una pratica che cancella la gravità fisica del mondo… vuole potenziarlo mediante la fondazione di un metodo reale, figurabile, capace di estrarre un segno, formalizzando e circoscrivendo nel recinto di una forma necessaria l’oscuro peso del colore”.
L’artista dimostra fin dagli esordi una severa determinazione nel radicare il suo linguaggio in un universo di segni che rimanda alla tradizione dell’astrazione europea delle prime avanguardie, con l’ausilio di tecniche e supporti fortemente innovativi.
E con la carta da manifesto, l’artista realizza quest’opera al Porto Fluviale. Carta come superficie di origine e mutamento per un artista che fa combaciare disegno e pittura, ricreando l’intensità della tela nella biologia della cellulosa. Mezzo per un magazine che impagina abitazioni mentali dentro il vestire, distillando dialoghi lungo le protesi indossabili del sistema Moda.