Piove. Piove in quasi tutte le pagine che compongono la graphic novel Le voci dell’acqua, il debutto del maestro Tiziano Sclavi con questo formato editoriale per i tipi di Feltrinelli Comics.
Tanta acqua che scende dal cielo per una storia che si dipana con un ritmo quasi a singhiozzo, e che contribuisce ad un’atmosfera malinconica sparsa in tutti gli episodi di una storia che ad una prima lettura può apparire disorganica, pur se scorrevole.
Per apprezzarla in pieno, come spesso accade con le opere di Sclavi, sono necessarie una seconda ed anche una terza lettura, per cogliere tutte le sfumature e, da consuetudine, anche le citazioni.
La storia è semplice, una volta entrati nel meccanismo: Stavros, il protagonista, inizia a sentire strane e poco intellegibili voci ogni qual volta ci sia dell’acqua che scorre, il che rappresenta un problema in una città che sembra costantemente immersa in una fittissima ed incessante pioggia.
L’asettico e scostante neurologo che lo taccia di schizofrenia è un tassello di passaggio nella narrazione, che tra flashback e rimandi ricostruisce la solitudine del protagonista ed il suo sentirsi alienato in un contesto urbano caotico quanto insensibile.
Nella storia di Stavros, umile impiegato che vive giornate appiattite e tutte uguali, ritornano alcuni dei topoi classici di Sclavi e ben noti ai lettori di Dylan Dog.
Il posto di lavoro visto come alveare nefasto ed orrore massimo, alieni che compaiono in scena senza che la città nemmeno se ne accorga in un capitolo quasi muto intitolato “Non siamo soli”, un ruolo cruciale attribuito ai genitori quando “carnefici” e causa di ripercussioni sui malesseri futuri.
Sclavi ha per la prima volta voluto cimentarsi con un prodotto culturale nato e pensato per le librerie come la graphic novel, ed i risultati sono all’altezza delle aspettative, se ci si prende il giusto tempo per far decantare l’opera.
Alcuni stilemi rappresentano evidenti strizzate d’occhio a chi Sclavi già lo conosce bene: l’autore di Broni si autocita quando mette in scena dialoghi come i “Senti… niente” che riportano alla memoria Marina Kimball de “Il lungo addio”, o quando, come detto poso prima, ci mostra gli extraterrestri come già li abbiamo conosciuti nella trilogia di albi di Dylan Dog dedicata al tema.
Non mancano però le citazioni esterne, anch’esse un leitmotiv dell’autore, come nella vignetta nella quale con un picco di ironia incluso nel balloon (scoprite voi di che si tratta!) ci mostra senza dubbi di sorta il ghigno di Joseph Merrick, protagonista di The Elephant Man.
I disegni, particolarmente espressivi, sono affidati alle sapienti e talentuose mani di Werther Dell’Edera, astro nascente del fumetto italiano e artista poliedrico, il cui tratto si rivela perfetto per esprimere il surrealismo sclaviano.
Un tratteggio fitto e finissimo compone luci, ombre e pioggia, in un lavoro certosino di aggiunta e sottrazione che spinge a soffermarsi su ogni singola tavola per apprezzarne la cura realizzativa.
Nell’opera troviamo tutte le amare riflessioni sul malessere della società contemporanea attraverso il filtro dell’ironia e della sensibilità di Sclavi su temi così difficili e delicati. Le sequenze più oniriche fanno da corredo indispensabile, ma il substrato è composto da disagi comportamentali, depressione, ansia, alterazioni nella percezione della realtà e persino di sé stessi.
Non ha importanza che le situazioni episodiche siano reali o immaginate: la suggestione del disagio esistenziale trasmessa è palpabile, ed è sufficiente ad emozionare.