Crossover di “Unbreakable” del 1998 e del più recente “Split”, con questa pellicola Shyamalan soddisfa il suo desiderio di far interloquire i personaggi interpretati da Bruce Willis (David Dunn), Samuel L.Jackson (Elijah Price) e James McAvoy (Kevin Wendell Crumb, fra le cui personalità spicca quella de “La Bestia”), inserendo la figura di Sarah Paulson (la dott.ssa Ellie Staple, psichiatra), incaricata dell’ingrato compito di dissuadere i 3 protagonisti dal continuare a pensare di essere speciali – ciò riconducendo all’incisività che in loro vanno a ricoprire malattie psicosomatiche, disturbi sensoriali e turbe della personalità, quasi sempre afferenti a traumi infantili.
Premetto che, di veramente fragile non è tanto il titolo del film quanto la sua trama; la quale, pur nel tentativo di demandarne tenuta e credibilità al calibro degli attori presenti, si presenta egualmente debole e forzata, quanto a tratti inverosimile. Se non, addirittura, inadeguata.
Venendo alla stessa, L’ORDA – ossia Kevin Wendell Crumb e i suoi numerosi alter ego (diciotto, per la precisione) – ha catturato un nuovo gruppo di ragazze e, dopo averle legate in un camerone buio di una vecchia fabbrica abbandonata, si prepara a “sacrificarle” alla Bestia che è in lui. Il vigilante David Dunn, grazie anche all’aiuto del figlio e alle sue visioni psichiche (anche qui è assai buffo l’intuito che la scrittura attribuisce a Bruce Willis sul sapere imbroccare al primo colpo la zona da ispezionare per trovare il manigoldo maniaco) riesce a stanarlo e a salvare lo sfortunato quartetto, che se la cava per un pelo.
Beccati dalla polizia a valle di un duro scontro, vengono rinchiusi in un istituto psichiatrico e dati alle “cure” della psichiatra Ellie Staple. Nella stessa struttura è detenuto da 19 anni “l’uomo di vetro”, il geniale Elijah Price. Il quale, alla notizia di avere nuovi “compagni” e per quanto inespressivo (c’è però da dire che finge soltanto di esser sedato, laddove ha avuto l’acume di sostituire le pillole con banali aspirine, che non si comprende come si possa esser procurato), gongola al sol pensiero di poter finalmente dimostrare al mondo che le sue teorie sugli esseri dotati di superpoteri sono reali.
Nel frattempo, il figlio di David Dunn (Spencer Treat Clark), la madre dell’Uomo di Vetro (Charlayne Woodard) e la ragazza scampata in Split alla furia incontrollata dell’Orda (Anya Taylor-Joy) cercano di sottrarre i propri congiunti dalle (vagamente) terapiche attenzioni della dottoressa Ellie Staple, logorroica fino allo stremo nei dialoghi – la scena in cui tutti e 3 i protagonisti, per quanto “super”, sono legati alle sedie come salami inerti e assoggettati ai bonari inviti della verbosa psichiatra è una delle peggiori dell’intero film – fino al culmine della saggezza dissuasiva, esibita al cospetto del trio che ne chiede la liberazione (“I libri di fumetti non sono libri di storia!”).
Il film, dichiarato come a basso budget, dimostra tutte le sue incertezze e quasi si diverte ad ostentare le varie rabberciature insite nei singoli segmenti narrativi; evidentemente approntate per la (manifesta) necessità di dover, in qualche modo, legare fra loro sequenze non poco eterogenee.
Qualche esempio? 1) La Bestia e il vigilante, a tergo di una colluttazione, precipitano per strada da un’altezza imprecisata e si rialzano senza un graffio, che manco due spugne di mare, e nemmeno la polizia sembra dar peso alla straordinarietà della circostanza; 2) La ragazza sfuggita all’Orda assumer come prova dell’esistenza dei supereroi il fatto che Metropolis sia ispirata a New York (tutt’altro che un segreto, per inciso) o che il costume dei primi supereroi fosse ispirato a quelli dei primi artisti del circo degli anni ’30; 3) Nonostante una letargia forzata di 19 anni, alla prima occasione utile “Mr Glass” – come adora autoproclamarsi, per ben 3 volte, Elijah Price nel dialogo con la Bestia – si rivela un hacker fenomenale; pur, in teoria, dovendo essere del tutto ignaro del funzionamento di meccanismi e dispositivi di ultimissima generazione presenti nell’istituto per regolamentare, in particolare, il sistema di videocamere di sorveglianza e la fruizione del browser locale per ottenere informazioni dal mondo esterno; 4) I sorveglianti della struttura, e non mi dilungo, da quel che vien fatto vedere hanno un Q.I. che – a voler esser gentili – appare a cifra singola.
Quanto poi al finale, farcito di una quantità di dialoghi che vorrebbero avere la pretesa di far quadrare il cerchio – dei quali almeno l’80% si rivela del tutto superfluo (se non nocivo) -, lascio ogni altro commento agli spettatori. Anche per non spoilerare quella che, probabilmente, è l’unica trovata carina del film, che risuona benefica in un contesto che si incarta assai; al punto di avere il dubbio che o si tratta di auto-parodia o si è alla fine di un ipotetico Scary Movie 6.
In sostanza, l’ambizioso progetto di Shyamalan delude, laddove si arena contro quell’evidenza che porta a pensare “Male”; ovvero che sia un film fatto uscire nelle sale in tutta fretta per motivi di produzione. Pur trovandosi, a livello di sceneggiatura, a uno stato meramente embrionale.
Perché affermo ciò? Perché, pur a fronte di un regista bravissimo a delineare panorami ed atmosfere, trattasi di pellicola troppo poco costruita e banale; fino a sfiorare, in alcuni frangenti, la soglia del demenziale. Pagando inoltre il prezzo di prendersi fin troppo sul serio, affidandosi a troppe espressioni perplesse e malinconiche, quasi mai stemperando con qualche balsamico sorriso o momento di ilarità; ovvero contrariamente a quanto inserito – forse con la saggezza di chi sa che in certi contesti si rischia di tirar troppo la corda dell’immaginifico (Vedasi, in particolare, Thor: Ragnarok) – in alcuni degli ultimi film degli Avengers, ben più potenti dal punto di vista delle doti fisiche e sensoriali, nonché assai più quotati nel panorama cinematografico.
Spiace soprattutto per i 3 protagonisti; che restano comunque, nonostante quest’opera infelice, a pieno titolo nell’olimpo dei divi.
Bruce Willis lo conosciamo. Può piacere o non piacere, ma ha fatto la storia di un bel pezzo dell’ultima era hollywoodiana. Chapeau.
Samuel L.Jackson è uno di quegli artisti che impara le battute a memoria nel minor tempo e che, fino allo sfinimento, ama ripetersele pure davanti allo specchio mentre si fa la barba.
James McAvoy si dimostra sempre più ferrato e polivalente in ogni ruolo, comprimario o meno.
Ma a tutti e 3 andrebbe fatto un solo appunto. Quale?
Un copione così brutto, spoglio e inconsistente, potevano anche RIFIUTARSI di interpretarlo…