Philippe Daverio ci lascia all’età di 71 anni a causa di una lunga malattia, tenuta nascosta fino alla fine, dopo essere stato ricoverato all’Istituto dei Tumori di Milano.
Etichettarlo e provare a relegarlo ad un unico ruolo è complesso perchè Philippe Daverio è stata una personalità istrionica, complessa, poliedrica e dai mille colori e sfumature: gallerista, saggista, storico dell’arte, divulgatore, docente, conduttore, scrittore, politico, conoscitore di molteplici lingue europee; lui amava, però, definirsi un antropologo.
I suoi tratti caratteristici che lo rendevano unico: abiti gessati coloratissimi a strisce, quadroni e figure geometriche, immancabili papillon dai colori sgargianti (che indossava già da ragazzo poco più che diciottenne nei cortei sessantottini a Milano) e occhialino tondo, nonchè una voce che riusciamo a sentire ancora ora quando lo ripensiamo perchè resta impressa nel suo timbro particolare, un pò roca, ma elegante, con giochi di tonalità per dare la giusta enfasi all’opera o all’ospite di turno, in grado di incantare lo spettatore, con le sue visite per la bella penisola, girata senza sosta in lungo e in largo, alla scoperta e ricerca delle innumerevoli meraviglie culturali, al cospetto di un’opera d’arte, un quadro, un edificio storico, una via suggestiva, un piatto tipico, con il dono della sua immensa cultura e la capacità di divulgare una forma di sapere appetibile e conciliante, armoniosa e originale, accattivante e divulgativa, tutto originato dall’amore per l’arte, scoperto, per la prima volta, a soli 10 anni, visitando la Villa Imperiale di Pesaro e non la Reggia di Versailles, pur essendo nativo francese.
Nasce, difatti, il 17 ottobre 1949 in una cittadina dell’Alsazia, Mulhouse, quarto di sei figli, da madre francese e padre italiano, Napoleone Daverio, che di mestiere faceva il costruttore.
Si trasferirà a Milano da adolescente, dopo aver frequentato il liceo europeo di Pavia, si iscriverà alla facoltà di Economia e Commercio, presso la Bocconi, dove conseguirà tutti gli esami ma non scriverà mai la sua tesi e su questo gli piaceva ironizzare, dichiarando di non essere un dottore “perché non mi sono laureato, ero iscritto alla Bocconi nel 1968-1969, in quegli anni si andava all’università per studiare e non per laurearsi” (Condizione per cui spesso era criticato dagli intellettuali più bacchettoni che vedevano nella mancanza del conseguito titolo universitario un limite alla sua opera divulgativa e scientifica, ma lui era troppo intelligente e preparato per curarsene).
Tanto è vero che, in barba a chi lo criticava, Daverio ha insegnato storia dell’arte presso diverse Università italiane tra cui l’Università degli Studi di Palermo e a Milano (Iulm e Politecnico), con la sua grande genialità artistica, la perspicace capacità di riconoscere un talento, la fluida espressione narrativa di chi interiorizza e ha interiorizzato il mondo dell’arte e della cultura e riesce a descriverne le bellezze, i misteri, le verità nascoste, i segreti inviolabili, una grande libertà di pensiero che ha esercitato durante tutta la sua carriera, anche nelle sue brevi sporadiche esperienze politiche, sganciato a specifiche logiche di partito, il senso del gusto raffinato dell’arte che spazia in ogni luogo e l’originalità di un modo di essere che ha creato l’immagine di un personaggio favolesco, quasi tirato fuori da un quadro, da una tela del trecento in grado di personalizzare i format televisivi che ha condotto e che sono divenuti la sua immagine riflessa, specchio di un uomo di grande spessore culturale e di grande amore per la sua terra di adozione, avendo cittadinanza francese.
Memorabile il suo intervento all’Università di Bergamo del 2016 per l’apertura dell’anno accademico, al cospetto del Presidente della Repubblica, Mattarella, dove tenne una lectio magistralis che è rimasta impressa per le sue parole dedicate ad “un’Europa che tutti vorremmo, della cultura“, incitando gli studenti universitari ad essere rivoluzionari “perchè ogni generazione ha avuto la sua rivoluzione, i giovani di oggi prendano in mano la loro”.
La sua passione per l’arte diviene concreta, negli anni Settanta, con l’apertura, nel 1975, a Via Montenapoleone n. 6 della sua prima Galleria d’arte che, peraltro, portava il suo nome “Galleria Philippe Daverio”, dove ospitava prevalentemente movimenti d’avanguardia della prima metà del Novecento, con uno sguardo rivolto anche alle opere del periodo fascista.
Sulla scia della sua sempre più elevata notorietà e competenza, nel 1986 viene aperta a New York la “Philippe Daverio Gallery” , anch’essa rivolta alle opere dell’arte del ventesimo secolo e, dopo tre anni, a Milano in corso Italia 49, allestirà una seconda galleria di arte dedicata, invece, alle opere contemporanee.
Il suo talento, magari un pò eccentrico, a volte aulico e dotto, eppure “colto” e “còlto” dalla gente, presso cui era divenuto popolarissimo, grazie ai suoi programmi tv, lo ha reso particolarmente versatile, essendo stato, nella sua lunga carriera, autore di oltre 50 libri, vincitore di premi letterari, editore di libri d’arte, nonchè editorialista per diverse testate giornalistiche ed eccentrico conduttore di programmi televisivi, tra cui le ultime apparizioni a Striscia la notizia con una rubrica intitolata “musei aggratis”, anche quest’ultimo canale nazional popolare scelto per fornire informazioni culturali e dotte ad un pubblico numeroso e insolito a tali appuntamenti, considerata la matrice giornalistica, un pò aggressiva e scandalistico-satirica, del programma in questione.
La sua popolarità nasce, però, da diverse trasmissioni Rai, come Art’è, Art’tu e la notissima Passepartout andata in onda dal 2001 al 2012, ancora attualmente in replica sui canali integrativi della Rai, dove il suo incedere, il suo parlato, la sua conversazione con l’opera d’arte presentata, le sue pause, la sua gestualità, la sua seduta con il ginocchio in vista divengono un tutt’uno con lo spettatore astante in attesa di conoscere il risvolto originale, arguto e perspicace della sua narrazione accompagnata da una dettagliata e magniloquente descrizione, sempre forbita e avvolta in una loquace inarrestabile verve, con la conclusione spesso affidata a raffinati e deliziosi paradossi.
Per citarne uno:”La curiosità sarà anche un difetto e l’ozio un vizio, ma i due elementi, combinati insieme, sono un utile strumento di sopravvivenza per guardare le opere d’arte”.
Il Museo più bello da visitare – diceva – è la nostra bella Italia, con la sua commistione di curiosità e “maraviglia”, arcaicamente intesa, si immergeva nelle visite e nelle perlustrazioni con giocosità e divertimento magicamente unite alla serietà e alla compostezza di un conoscitore professionista e mai improvvisato.
Ed è proprio così che era lui: la sua conoscenza e il suo sapere sono immensi così come la sua capacità di condivisione ed elargizione, tutto partiva dal rispetto delle ricchezze storico, artistiche e culturali dell’Italia, e dal desiderio di diffondere e inculcare l’amore per la bellezza italiana, passione che lo spinse a fondare il movimento , in occasione dei 150 anni dall’Unità d’Italia, denominato “Save Italy”, scelta del nome volutamente in lingua inglese, al fine di sottolineare che l’arte italiana è patrimonio del mondo e dell’umanità e, non solo, gelosamente e bistrattatamente nostrano, al fine di sensibilizzare sull’importanza oltre confine della salvaguardia dell’eredità artistico-storico-culturale dell’Italia.
I toni divenivano polemici quando parlava delle brutture della gestione del patrimonio artistico italiano, come quando dichiara «Rispetto all’Italia del nostro passato il Paese è oggettivamente imbruttito e ha cambiato sapore», cercando di richiamare al centro di un’attenzione e di una necessaria attività di sensibilizzazione il ruolo della politica per cui «L’Italia è diventata brutta perché la legge ci ha imposto perché diventasse brutta», di qui la critica alle numerose leggi che non hanno risparmiato penalizzazioni all’ingente mondo dei beni culturali che possiede l’Italia, come l’abbrutimento o la ghettizzazione dei centri storici, la mancata attivazione di un’opera di diffusione e promozione della cultura italiana nel mondo che paradossalmente, diceva, è studiata più all’estero che nelle università italiane, di una deficitaria pubblicizzazione e attivazione di una sana curiosità e di un vivace interesse nei più giovani sul valore delle opere d’arte, intese nel senso più ampio possibile e di queste lotte e principi lui si sentiva baluardo, anche se in certi casi, molto provocatorio e, a tratti, polemico e insofferente.
Brevi e diverse le sue esperienze politiche, come quella di assessore all’educazione e alla cultura in diverse città, quale Milano con la giunta Formentini, per la quale fu criticato ed etichettato quale leghista, in realtà, in alcune sue interviste, in modo stentoreo, dichiarerà anni dopo che “Era la Lega ad aver sposato idee daveriane”, idee ben lontane dalla lega dei giorni nostri che Daverio bistrattava e negava, richiamando nelle sue riflessioni i principi di una primordiale Lega, quale movimento indipendentista, pur avendo, in occasione della politica immigratoria di Salvini, condiviso il blocco degli imbarchi, considerati un’invasione a mò di antichi pericoli destabilizzanti per l’Italia.
Nelle sue varie candidature, ha sempre sottolineato, anche con raffinata e pungente critica, la natura dell’essere umano: “È l’essere umano, nella sua essenza ontologica, a essere irrimediabilmente complicato e proprio per questo motivo così curiosamente creativo e degno di nota.”Fascista io? Io non sono fascista, io sono stalinista! Quelli come voi andavano nelle miniere di sale! Io non sono fascista, io sono per Giuseppe Stalin!”
Da ultimo, candidato per le europee dello scorso anno, dichiarava il suo più nobile intento contro una politica che spaventa e avvilisce «L’idea di rimanere chiuso nello stivale, con uno sgradevole odore di piede che sta salendo, mi dà fastidio. Mi riferisco alla sensazione che mi dà una parte della politica di oggi» e al giornalista che gli chiedeva, cosa intendesse dire e a chi si riferisse quando diceva che a votarlo saranno solo gli illuminati, ovvero se si riferisse ai radical chic, lui rispondeva: “No, ma va, l’illuminato è trasversale, l’illuminato è il giornalaio sotto casa, l’illuminato è un signore che fa bene il suo mestiere”.