Il 17 marzo , l’Italia unita ha compiuto centocinquantasette anni. È passato più di un secolo e mezzo, eppure il periodo risorgimentale continua a dividere le opinioni ed è tornato ad essere attentamente analizzato, soprattutto da quegli storici meridionalisti, i quali persistono nel contribuire a portare avanti movimenti di pensiero che vogliono farsi promotori delle istanze di un Meridione in difficoltà. Difatti, la Storia non va assolutamente considerata come un orpello intellettuale del quale, tutt’al più, fare sfoggio, anzi essa è, prima di tutto, lo strumento più efficace per avere un punto di vista privilegiato sul presente, per poter comprendere lucidamente le dinamiche di causa e conseguenza e quindi porsi nelle condizioni pure di poter affrontare le problematiche – qualora se ne avesse l’effettiva volontà -. Ebbene, come è ormai a tutti noto, il divario economico e sociale che il nostro Paese vive, tra il Nord e il Sud, affonda le sue radici proprio nelle modalità attraverso le quali esso è nato, ovvero una guerra, per giunta molto sanguinaria. Ovviamente un conflitto, in quanto tale, e a prescindere anche dal caso specifico, comporta dei vincitori e dei vinti, ed è inevitabile che i primi, specie se mossi da spirito di annessione, pensino innanzitutto ai proprio tornaconti, impostando nei loro apparati la centralità e considerando i secondi in un’ottica di colonizzazione, quindi a loro funzionale.
Dunque l’Italia è sorta su uno squilibrio e duole constatare che, nonostante diversi intellettuali e politici nel corso di più di centocinquanta anni abbiano posto il problema della cosiddetta “questione meridionale”, nessuna classe dirigente susseguitasi nel tempo sia riuscita o abbia realmente voluto provare a colmare la frattura. Anzi spesso, purtroppo, come pure nella storia recente, è capitato il contrario, con frange politiche (ancora in auge, checché se ne dica) che, ignorando ogni valutazione non meramente superficiale e faziosa, hanno piuttosto scaricato le responsabilità sul solo Mezzogiorno, colpevole, a detta loro, di essere inetto e alla ricerca di assistenzialismo.
Per tali motivi, anche noi su Senza Linea, nel nostro piccolo, vogliamo contribuire alla riscoperta storica, la quale, lungi dal voler alimentare sterili avversioni, possa piuttosto essere utile ad una presa di coscienza collettiva su quelle che sono le ragioni storiche ed originarie della situazione attuale, di uno scenario di divisione, che del resto è emerso, in maniera ancor più evidente, anche dalle recentissime votazioni.
Fatta questa lunga premessa, allora offriamo qui uno spunto di riflessione, attraverso la riproposizione di uno dei personaggi centrali del brigantaggio, ovvero di quel fenomeno storico che, insieme al florido periodo borbonico pre-unitario, vive una fase di rivalutazione da parte degli studiosi, capace, forse, di essere scevra dai pregiudizi imposti da una lettura ideologizzata – quale può essere quella che, per natura, viene sempre messa a punto dai vincitori di una guerra -. Parliamo di Ninco Nanco, nato come Giuseppe Nicola Summa, ad Avigliano, nei pressi di Potenza, nel 1833 e ucciso il 13 marzo del 1864. Ebbene, quella del brigante lucano è, senza ombra di dubbio, una figura che, come gli altri, in primis Carmine Crocco, continua ad alimentare gli studi e si muove tra chi l’ha considerato un feroce criminale e chi, invece, vede in lui un eroe che, resistendo con le armi, difese la sua terra da quello che era a tutti gli effetti percepito come l’invasore straniero. Noi, per avere una visione efficacemente riassuntiva e critica rispetto a quella che da sempre è andata per la maggiore, vogliamo invitarvi ad ascoltare un brano del grandissimo Eugenio Bennato, autore molto attento sulla questione. Nello specifico, non stiamo parlando della famosa canzone “Brigante se more”, ma piuttosto di quella che il cantautore napoletano ha scritto dedicandola proprio a Ninco Nanco, e a cui deve appunto il titolo. Si tratta di un componimento che, pur nella sua brevità, avanza, partendo dal ricordo del brigante, un pungolo culturale di notevole levatura e uno squarcio di analisi su quel periodo della nostra storia e su tutto ciò che esso ha significato per le genti del Sud e per il loro successivo mancato sviluppo economico.
Ne riportiamo qui il testo, in modo da poterlo leggere ed apprezzare insieme.
Sarà una spina nel fianco Ninco Nanco quando campa,
sarà una spina nel cuore Ninco Nanco quando muore.
Sarà una spina nel fianco Ninco Nanco quando campa,
sarà una spina nel cuore Ninco Nanco quando muore.
1859, muore il vecchio re Borbone
e sul trono va suo figlio, 23 anni, ancora guaglione.
E’ il momento di approfittare di questo vuoto di potere,
di quel regno in mezzo al mare difeso solo dalle sirene.
E u Banco ‘e Napoli è l’ideale per rifarsi delle spese,
per coprire il disavanzo della finanza piemontese.
E Ninco Nanco deve morire perché la storia così deve andare
e il Sud è terra di conquista e Ninco Nanco nun ce po’ stare,
e Ninco Nanco deve morire perché si campa putesse parlare
e si parlasse putesse dire qualcosa di meridionale.
Sarà una spina nel fianco Ninco Nanco quando campa,
sarà una spina nel cuore Ninco Nanco quando muore.
Sarà una spina nel fianco Ninco Nanco quando campa,
sarà una spina nel cuore Ninco Nanco quando muore. E lo Zolfo di Sicilia e i cantieri a Castellammare
e le fabbriche della seta e Gaeta da bombardare.
E’ l’ideale che fa la guerra, una guerra dichiarata
per vedere chi la spunta tra il fucile e la tammurriata,
e tammurriata è superstizione, questa storia deve finire
e qui si fa l’Italia o si muore e Ninco Nanco deve morire.
E Ninco Nanco deve morire perché la storia così deve andare
e il Sud è terra di conquista e Ninco Nanco nun ce po’ stare,
e Ninco Nanco deve morire perché si campa putesse parlare
e si parlasse putesse dire qualcosa di meridionale. Sarà una spina nel fianco Ninco Nanco quando campa,
sarà una spina nel cuore Ninco Nanco quando muore.
Sarà una spina nel fianco Ninco Nanco quando campa,
sarà una spina nel cuore Ninco Nanco quando muore.
E per sconfiggere il brigantaggio e inaugurare l’emigrazione
bisogna uccidere il coraggio e Ninco Nanco è meglio che muore.
Perché lui è nato zappaterra e ammazzarlo non è reato
e dopo un colpo di rivoltella l’hanno pure fotografato.
E la sua anima è già distante, ma sul suo volto resta il sorriso,
l’ultima sfida di un brigante: “Quant’è bello murire acciso”. E Ninco Nanco deve morire perché la storia così deve andare
e il Sud è terra di conquista e Ninco Nanco nun ce po’ stare,
e Ninco Nanco deve morire perché si campa putesse parlare
e si parlasse putesse dire qualcosa di meridionale.
E Ninco Nanco da eliminare e se lui muore chi se ne frega,
sulla sua tomba neanche un fiore, sulla sua tomba nessuno prega. E Ninco Nanco da eliminare, che non si nomini più il suo nome,
sia maledetta la sua storia, sia maledetta questa canzone.
Sarà una spina nel fianco Ninco Nanco quando campa,
sarà una spina nel cuore Ninco Nanco quando muore.
Sarà una spina nel fianco Ninco Nanco quando campa,
sarà una spina nel cuore Ninco Nanco quando muore.
Sarà una spina nel fianco Ninco Nanco quando campa,
sarà una spina nel cuore Ninco Nanco quando muore. E Ninco Nanco deve morire perché si campa putesse parlare
e si parlasse putesse dire qualcosa di meridionale.