Era il 1968, Franco Basaglia (1924-1980), psichiatra e neurologo, si battè per la chiusura dei manicomi, e insieme a Carla Cerati (1926-2016), fotografa milanese, realizzarono un fotoreportage per il settimanale “L’Espresso” su queste strutture. Si trattava di istantanee mai viste prima in Italia. Così, decisero di farne un libro, “Morire di classe”, che, con l’aggiunta dei testi di Basaglia, fecero conoscere all’Italia le condizioni tragiche dei malati. In questo modo, Gianni Berengo Gardin (1930), immortalò uno dei lavori più forti, decisi e importanti della storia italiana. La fotografia entrò in strutture proverbialmente chiuse e fece emergere le condizioni e situazioni che non dovevano essere mostrate. Attraverso un lavoro prettamente sociale, la fotografia riscoprì una sua urgenza, una centralità, un valore e una necessità intrinseca di rivelare, indicare e indignare.
Allo stesso modo, con la stessa identica sensibilità, con una funzione sociale e psicologica, l’artista Giuseppe Serrapica (1972), focalizza l’attenzione su un’altra patologia, sul Morbo di Alzheimer, forma più comune di demenza degenerativa progressivamente invalidante. Le riflessioni del fotografo scafatese si esemplificano nella mostra personale dal titolo “Quella luce invisibile”, allestita nelle sale del PAN, Palazzo delle Arti di Napoli, in via dei Mille 60, fino al 14 giugno 2021.
E’ un viaggio nel profondo, di un percorso visivo che spazia tra il reportage e lo scavo intimista, fino all’onirico, che affronta una tematica di estrema sensibilità. E’ una ricerca portata avanti dall’autore in sette anni, quelli della malattia di sua madre (Brigida), realizzando scatti in ogni momento, in bianco e nero e a colori. Non sono foto artificiose, costruite con pose plastiche. La capacità dell’artista è quella di trascinare l’osservatore nel campo delle emozioni, che ben descrivono una dimensione dell’esistenza come un fluire naturale degli eventi. E’ una luce invisibile che descrive nell’immediatezza di uno scatto tutto ciò che non si potrà mai definire diversamente. Come afferma Serrapica: “Al tempo della malattia di mia madre la fotografia divenne una grande compagna. Mi poneva in uno stato di presenza e di osservazione, testimone della mia sofferenza, che non era più subita passivamente ma cavalcata, impugnata in modo attivo, trasformando le immagini che coglievo in uno strumento catartico. Mamma divenne la mia modella preferita e a lei piaceva essere fotografata e ricevere quelle attenzioni che non aveva mai ricevuto nel corso della sua vita. Per lei parlavano i suoi occhi, era diventato un gioco quasi infantile, un viaggio a ritroso dritto verso una nuova infanzia”.
Ed è il documento fotografico il mezzo realistico per individuare, osservare e dominare il morbo di Alzheimer. Le istantanee che ritraggono i luoghi in cui ha vissuto la madre, da Scafati a Rovigliano, la immortalano nelle sue attività o in riva al mare, restituiscono una dimensione di semplicità, totalmente neutra e asettica, dove si recupera una umanità violata dalla patologia latente. Ciò che mostra Serrapica è una svolta comunicativa: il modo di produrre le immagini conferiscono dignità e rispetto alla donna, innescando una riflessione tra il visibile e l’invisibile. Le fotografie inquadrano l’esperienza umana della sofferenza, fuori dagli stereotipi correnti, riuscendo a porsi di fronte ai malati con una attenzione mai usata prima: non quella che oggettiva i segni di una patologia annullando l’individuo portatore dei sintomi, ma uno sguardo che cerca proprio la persona, non i suoi segni esteriori, ma la sua interiorità. Nella posa che offre Brigida in alcuni scatti, si ritrova una modalità di rappresentazione caratterizzata da una grande intensità emotiva. In “Connessioni”, madre e figlio sono ripresi l’uno accanto all’altro, in un momento di grazia e di abbandono. Ciò che emerge è la ricerca di un contatto fisico e cerebrale, una connessione emotiva che va oltre la patologia.
Il percorso espositivo prosegue con alcune foto in cui sono visibili dei cenni di lucidità mentale della donna, nell’atto della lettura di un giornale o nel silenzioso raccoglimento davanti alla tomba di un familiare al cimitero. Di diversa caratura sono, invece, le istantanee a colori dove Brigida è immortalata fra le mura domestiche, come ad esempio in “Le mie notti di veglia”, fino ad arrivare alle foto dal tragico epilogo, da “Il ricovero” a “La Carezza”. Questo progetto fotografico, a distanza di quattro anni dalla morte della donna ha come scopo di Ri-dare spazio alla fragilità, al dolore, alla malattia ed alla morte in tutta la sua naturalezza restituendole il valore perduto, in cui Serrapica, oltre ad esserne un abile narratore, induce l’osservatore alla ricerca di una umanità troppo spesso bistrattata.