“Vesuvio quotidiano, Vesuvio universale”, è il titolo della mostra allestita nelle sale della Certosa e Museo di San Martino, a Napoli, curata da Anna Imponente e da Rita Pastorelli per la parte storica, fino al 29 settembre 2019. L’esposizione raccoglie circa 100 opere dal Cinquecento ad oggi, e sono alcune delle suggestioni suscitate nel corso del tempo dalla paura ancestrale della presenza incombente del Vesuvio sul paesaggio e sulla città, come espressione della potenza della natura e della fragilità umana. Ad accogliere i visitatori sono le opere di Bizhan Bassiri, elaborate dalla adesione del “Manifesto teorico del Pensiero Magmatico”. Questa ricerca ha origine da una visita a Napoli, sul Vesuvio, in cui l’artista viene sorpreso dalla grande bocca del cratere. E’ esposto un grande disco vermiglio, “Evaporazione rossa”, una sorta di reperto lavico in forma di astro solenne, per cui l’arte è come il sole, è energia vulcanica irrefrenabile. La seconda opera è “Meteorite”, una scultura di pietra lavica con patinatura corvina, è la rappresentazione dell’energia insita nella materia.
“Evaporazione rossa”- Bizhan Bassiri.
Una intera sezione è dedicata alla collezione di “Vesuvi”, la donazione di stampe e gouaches, da parte di Aldo Caselli al Museo di San Martino. Figlio di un dirigente della Società di Navigazione Generale, cresce a Villa Majo, a Napoli. La vetrina all’ingresso accoglie le stampe più antiche a partire dalla famosa immagine dell’eruzione del 1631, del pittore tedesco Joachim Sandrart, per passare alle osservazioni sistematiche del periodo di Carlo di Borbone. Nelle teche successive le tavole del “Voyage pittoresque” del Saint Non, alcune vedute dei viaggiatori inglesi che si spingevano sul cratere e vedute dai Campi Flegrei di Hamilton, che riservano le immagini più spettacolari e romantiche del vulcano nei notturni al chiaro di luna.
“Collezione Caselli”- Aldo Caselli.
E’ “Vesuvius” di Andy Warhol a trascinare i fruitori di sala in sala, realizzata con la tecnica della serigrafia su tela. Moltiplicata in versioni coloratissime e giocata su palette differenti, l’immagine del vulcano è resa con modi spettacolari, nel linguaggio del Pop, tra icone e bill board pubblicitario. Il suo carattere minaccioso è declinato sempre nel momento dell’eruzione come massima manifestazione della potenza della natura e di sottomissione dell’uomo inerme.
“Vesuvius”- Andy Warhol.
“Odi navali” è l’opera di Anselm Kiefer, dove esplora il mare, dopo aver indagato il tema della terra e del cielo. Il titolo è una citazione tratta dalle liriche di Gabriele D’Annunzio del 1893, sulla morte dell’eroe di Lissa, l’ammiraglio di Saint Bon, e sul salvataggio che il poeta ricevette in mare. In questa composizione il mare minaccioso e in tempesta è il grande protagonista della tela. Il convulso moto della furia delle acque è resa con una pittura apparentemente istintiva, a tratti aggressiva, ma calibrata, che rimanda alla tensione primigenia della Natura. L’opera ricorda Plinio il Vecchio e i quattro giorni che trascorse con la sua flotta al largo di Ercolano, prima dell’eruzione del Vesuvio. La presenza di interventi di piombo, elemento alchemico e saturnino, enfatizza il senso malinconico e romantico. Formato da coaguli difformi che si addensano come nubi cariche di livore, conferisce alla superficie pittorica un raffinato cangiantismo metallico. Cielo e mare si uniscono in un unico corpo, entità spirituale e materiale, simbolica e tangibile, metafora dell’inquietudine umana e delle lotte reali e allegoriche dell’uomo.
“Odi Navali”- Anselm Kiefer.
Giovanni De Angelis si spinge a saggiare la potenza della luce in relazione alla natura nell’inedito progetto “Volcano”, in cui esplora le maestose forme del Vesuvio, in un video e in una sequenza di scatti sulla forza della Terra e delle sue manifestazioni. Ritratto in tutta la sua solenne presenza, il vulcano appare dall’alto come una creatura dalla bocca spalancata. Così l’uomo in piedi, al centro dello spazio, in asse con la retta rossa che taglia il cratere, e nel lancio di una pietra che ne mostra il movimento. Il materiale lavico diventa altura, massiccio, vetta che proietta la sua ombra a nord, ad sud, ad est e ovest, allo spostarsi e al variare della luce. In “Volcano”, l’artista dà le coordinate per seguire e sentire le forme e le misteriose ragioni di oscillazioni all’apparenza remote, ma in lenta espansione.
“Volcano”- Giovanni De Angelis.
Con l’eruzione del 1631, il Vesuvio diventerà tappa per artisti e studiosi. Un contesto naturale nei dintorni di Napoli che non ha mai conosciuto periodi di oblio, per la continua attività vulcanica e per la vicinanza di località cariche di testimonianze del passato, è la zona dei Campi Flegrei. Il suo luogo pittoresco, ritratto in serie con il Vesuvio, è senza dubbio la Solfatara, di cui è visibile la veduta di Michael Wutky.
“La Solfatara e il golfo di Pozzuoli” – (1781)- Michael Wutky.
La notte tra il 15 e 16 dicembre del 1631 una terribile esplosione si ebbe sul vulcano. La città era coperta da una nube di cenere, la popolazione si appellò con una processione guidata dal Vicerè e dal Cardinale al patrono San Gennaro, come descrisse Domenico Gargiulo, (Micco Spadaro), nel dipinto presente in mostra.
“Il trasporto delle reliquie di San Gennaro al Ponte della Maddalena durante l’eruzione del Vesuvio del 1631″- Domenico Gargiulo, detto Micco Spadaro.
Le antiche vedute della città partenopea e soprattutto del Vesuvio, hanno spinto Caragh Thuring a dipingere vulcani in una serie di opere che comprende anche “Inferno”. Oltre alle gouache napoletane del Settecento, l’opera fa riferimento anche al libro di Gillian Darley, dal titolo, “Vesuvius”. Con una pittura pastosa ed essenziale, l’artista raffigura individui sulla cima del vulcano. Sono presenze ridotte a silhouette, piccole ombre avvolte dalla grandezza del Vesuvio, nel cui cratere si agitano i flussi magmatici ed infuocati. Infatti, la Thuring altera la visione prospettica rendendo frontale, il vulcano incombe sui presenti minacciandoli di una imminente eruzione. Rinnovando il senso del sublime, l’artista mette a confronto la potenza distruttrice e rigenerativa della natura, con l’impotenza dell’uomo che non può guardare inerme, provando al contempo orrore e attrazione.
A destra: “Inferno”- Caragh Thuring.
L’inscindibile legame tra il Vesuvio e la città di Napoli fu rinsaldato nel XVIII secolo dal susseguirsi di ben sedici eruzioni, quelle 1760, 1767 e 1794. Pierre J. Volaire realizzò ben cinque tele, tra cui “Eruzione del Vesuvio del 1767 dal Ponte della Maddalena”. Un pittore in cerca di effetti luministici fuori dall’ordinario che documentava quanto accadeva durante l’eruzione.
“Eruzione del Vesuvio del 1767 dal Ponte della Maddalena”- 1777- Pierre J. Volaire
Oltre alla pittura, anche la scultura è protagonista della “narrazione vulcanica”. Un esempio sono le opere, “Appunto” e “Ore di insonnia” (1958) di Leoncillo Leonardi. In “Ore di insonnia”, la materia più che adagiata, sembra abbattuta dal vigore del gesto, in una convivenza tra bidimensionalità e tridimensionalità, resa dalla presenza di protuberanze e sporgenze. In “Appunto”, la terracotta viene, invece, plasmata in posizione verticale, in una forma vigorosa e apparentemente scomposta, in cui il cromatismo è limitato a poche tracce nere che disposte a macchia segnano la materia rossa. Le sculture sembrano sostanza primigenia, zolle staccate dalla terra, concrezioni magmatiche aggredite e sommosse da rivolgimenti e calamità.
“Appunto” (1958)- Leoncillo Leonardi.
Nell’opera “Tutto nero”, di Alberto Burri, la stoffa slabbrata copre la superficie del quadro, rapprendendosi, crea escrescenze, conferendo movimento. Tutto è coperto dal colore nero acrilico che si imprime generando spessore materico e seguendo le variazioni della tela, enfatizza le vibrazioni. Lo spazio del quadro diventa una superficie terrestre, in cui il colore sottoposto a combustione si screpola, aprendosi in fenditure e faglie. Burri crea opere in cui dialogano ordine e disordine, si esplica quello che lo stesso artista definiva “equilibrio squilibrato”, in cui lo spazio emana una rigorosa tensione plastica.
“Tutto nero” (1956)- Alberto Burri.
Adele Lotito è presente in mostra con le opere esito delle sue sperimentazioni con il fumo, che diventa materiale pittorico impresso su superfici prevalentemente in alluminio. In “Oltre le nuvole”, (1996), il fumo disegna animali esotici, quali l’elefante e il cammello, impressi sulla superficie cartacea applicata sull’alluminio. Le due figure sembrano porsi in un limbo tra apparizione e sparizione, tra presenza e assenza, mentre il fumo, segno distruttivo e germinativo, ha la stessa leggerezza delle nuvole. Sono nubi non convenzionali che vogliono portare lo sguardo oltre il tangibile della realtà e aprire ad una dimensione di sogno, dove il dramma della distruzione viene superato per mezzo del fumo.
“Oltre le nuvole”- (1996)- Adele Lotito.
In “Senza titolo”, (1996), Jannis Kounellis combina il ferro al sacco di juta trafitto da un coltello, con del carbone sparso intorno alla base, confermando l’attenzione per lo spazio e la materia. In quest’opera, gli oggetti definiscono una dimensione fisica dell’arte, in cui l’artista non rappresenta, ma mette in scena. Nella presenza teatrale, gli elementi mettono in relazione il presente con il passato, “narrando” la vita e l’attualità del quotidiano e sintetizzando la storia.
“Senza titolo”- (1996)- Jannis Kounellis.
Piero Mottola ha creato una vera e propria “Mappa emozionale a 10 emozioni”, (2019), ossia una rappresentazione grafica dell’emotività umana. La costellazione di stati d’animo è composta da dieci punti cardine: paura, angoscia, agitazione, collera, tristezza, calma, stupore, piacere, eccitazione e gioia, ed è data dallo studio emozionale dei partecipanti a stimoli acustici. Ad ogni sollecitazione sonora ciascun spettatore può rispondere scegliendo l’emozione che questo suscita attribuendogli, inoltre, un valore da uno a nove, quale minima e massima distanza dall’emozione provata. La mappa è completata da una installazione sonora data dall’Autocorrelatore acustico, quale sistema elaborato dallo stesso artista per creare delle “passeggiate emozionali perturbanti e coinvolgenti”. La sua funzione è quella di guidare lo spettatore in un percorso sentimentale che, con una cadenza di trenta secondi, conduca ai massimi contrasti emozionali. L’ambiente diventa così uno spazio avvolgente di suoni della natura mescolati e alternati a voci umane, quale magma irrefrenabile e travolgente volto al raggiungimento di un’acme simile all’esplosività di una eruzione vulcanica.
“Mappa emozionale a 10 emozioni”- (2019)- Piero Mottola.
Le opere “Untitled”, di Anna Maria Maiolino, appartenente alla serie “Entre o Dentre e o Fora”, il cemento è modellato come un reperto archeologico dalla misteriosa funzione, poggiato su una base. La forma piena del cubo cementizio tendente al giallo tenue delle pietre di antiche architetture, rivela improvvisi vuoti, cavità ancestrali che portano lo sguardo tra anfratti e recessi della materia e dell’animo umano. Si estende nello spazio, trovando posto a parete, “Untitled”, opera in pregiata ceramica raku di tradizione giapponese, formata da elementi sferici irregolari in cui si aprono fogli e tagli. Disposti ad angolo retto conducono ad altre forme altrettanto grezze e primitive che rimandano ai processi di creazione e distruzione.
“Untitled”- Anna Maria Maiolino.
Le opere di Claudio Palmieri sono la sintesi dell’unione delle tecniche e dei materiali, mostrano una natura che è cortocircuito tra compostezza e sfrenato movimento, tra pacata presenza ed energia primordiale. “Eruzione, Natura vulcanica, Nero vulcano”, sono all’apparenza opere bidimensionali, in cui la materia pastosa si rapprende in vortici e grumi, fino a “Petalo” e “Piccola bocca”, in cui sulla superficie emergono con forza escrescenze e vive protuberanze. Le concrezioni fittili si moltiplicano in “Cratere” e in “Magma”, facendo eco alla forza magmatica dei flussi vulcanici, a quella energia cosmica insita sulla Terra e che oscilla tra distruzione e forza rigeneratrice di nuova vita.
Claudio Palmieri.
La serie “Fuoco”, (2017), di Roberto Sironi, ha origine dal contatto diretto dell’artista con la natura, in cui si è immerso girovagando alla scoperta di elementi ritrovati, quali tronchi e rami colpiti da fulmini e bruciati dal fuoco. Questi object trouvé provenienti dalle montagne, sono diventati soggetti di un processo di rielaborazione con l’antica tecnica della fusione in bronzo. In una pratica quasi alchemica, Sironi trasfigura la fragilità del legno combusto in corpo forte e robusto. Saggiando le facoltà espressive della materia, l’artista sottrae il legno all’oblio del tempo, al dissolvimento fisico, donandogli vita eterna. In “Fuoco”, Sironi suggella il legame tra uomo e natura, in un tempo immobile e perpetuo, attraverso un processo di trasformazione e di purificazione, dato dal potere catalizzatore delle fiamme e del calore. “Fuoco” è portatore di un dialogo bidirezionale tra morte e vita, tra decomposizione e rinascita, tra forza martialis e paura, nella permanenza della purificazione.
“Fuoco” (2017)- Roberto Sironi.
Al 2017 risale il progetto tutt’ora in corso, “Vesuvio, 11 luglio 2017″ di Maurizio Esposito, nato dall’incendio che devastò 2700 ettari di pineta sui fianchi del Vesuvio, uccidendo 50 milioni di api. Il senso di appartenenza al vulcano trapela dagli scatti realizzati a fiamme domate, con la terra ancora calda, arsa e martoriata. Mosso dall’urgenza di preservare quel luogo, l’artista ha percorso sentieri imbiancati di cenere, versanti carbonizzati, relitti di alberi consumati dalle fiamme. E’ un progetto in divenire, che restituisce le immagini di un luogo sofferente e travalica l’oggettivo dato visivo, attivando un coinvolgimento emotivo e viscerale.
“Vesuvio, 11 luglio 2017″- Maurizio Esposito.
Antonio Biasucci nel 1984 rivolge alla natura la sua attenzione e in particolare al Vesuvio. Nasce uno screening per immagini, dal titolo “Magma”, dove immortala l’Etna, lo Stromboli, la Solfatara, Vulcano e le Bocche della Malvizia. Regna il silenzio nelle inquadrature macro e micro di paesaggi, flussi lavici, fumarole, definiti dalle sfumature e profondità del bianco e del nero che rivelano un mondo magmatico, quasi irreale. Il senso del sublime pervade ogni foto e avvolge in una disorientante vertigine tra terrore e piacere.
“Magma polittico n. 1″- Antonio Biasucci.
“L’eruzione del Vesuvio del 1872” è stata dipinta da Giuseppe De Nittis per il conte Karl Lanckoronosky, e restituisce l’atmosfera cupa del luogo, premonitrice della catastrofe. L’artista ritrae una gita sul vulcano compiuta dal figlio dell’imperatore Guglielmo di Prussia, il conte Albrecht Friedrich Wilhelm Bernhard von Honenau e la sua corte. La comitiva si muove in carrozza e a piedi, usando i bastoni, mentre le donne si riparano dal sole accecante con gli ombrellini.
“L’eruzione del Vesuvio del 1872”– Giuseppe De Nittis.
Alphonse Bernoud è uno dei pionieri della fotografia e realizza una serie di scatti della lava solidificata conseguente all’eruzione del Vesuvio del 1858. Le foto sono utilizzate sia a carattere divulgativo, sia per la letteratura scientifica di settore. Diversi fotografi immortalano il vulcano, sono immagini spettacolari e seducenti, come quella del cono principale del cratere, le cui pendici sono spesso popolate dagli escursionisti: uomini e donne si arrampicano per vie impervie con l’ausilio di guide e delle portantine.
“8129. Vesuvio. Cratere”. Giorgio Sommer.
Nella sua foto, “Baci da Napoli, (2017), Riccarda Rodinò Di Miglione, recupera la tradizione della cartolina, souvenir ormai sostituito dal dominio della tecnologia e dei social network, quale ricordo nostalgico di condivisione di una visita in un luogo magico. L’artista sceglie di ritrarre il Vesuvio al tramonto che si specchia, duplicandosi, nelle acque del Golfo di Napoli, quale icona popolare di memoria warholiana e di forza pubblicitaria. Ammiccante nella sua allure romantica dai colori “sunset”, presenza seducente le cui forme sensuali sono assimilabili ad un paio di labbra voluttuose.
“Baci di Napoli” (2017)– Riccarda Rodinò Di Miglione.
I due dipinti, “Tra le stanze” (2017), e “Quasi Ulisse” (2016), di Stefano Di Stasio, rispettivamente olio su tela e tempera su carta, sono permeati da un profondo senso del mistero. Ogni elemento è disposto quasi a voler creare un rebus. Tra le stanze una figura maschile vive in uno spazio chiuso, seduto ad un tavolo è assorto e proiettato all’interno di una porzione di labirinto in miniatura, mentre nella stanza accanto erutta un vulcano. E’ il Vesuvio in fase esplosiva sul Golfo di Napoli, è lo scenario di “Quasi Ulisse”. Lo stesso artista, probabilmente, è legato ad un palo, a cui è appeso un filo di luci, elemento ricorrente, insieme alle rose rosse che lo immobilizzano, mentre guarda incantato l’eruzione in lontananza, a memoria di Ulisse che tenta di opporsi all’ammaliante canto delle sirene. Di Stasio modula la pittura in stesure cromatiche di raffinata fattura, delineando calibrate composizioni in cui vanno in scena antichi riti e miti e il disvelamento di arcani segreti.
“Quasi Ulisse”- (2016)- Stefano Di Stasio.
“Insolite” è il video di Maya Schweizer, regista che indaga il tema della memoria legata a persone e luoghi. L’opera dura una dozzina di minuti in cui è condensata la storia del Vesuvio, il presente e la paura sul futuro. Dal buio iniziale emergono suoni indistinti di brontolii, moti dell’aria e della terra, sbuffi di fiumi e vapori che irrompono nella oscurità della notte. “Insolite” è un racconto per immagini, come dice il titolo stesso, insolito, strano, non convenzionale, che procede per associazione di ricordi, sensazioni, sentimenti, momenti di alta tensione fisica ed emotiva, a ricordare che il Vesuvio è solo un gigante addormentato, che si muove nel sonno, russa, borbotta, si agita e chissà se prima o poi si risveglierà da questo lungo e profondo torpore.