Sette. Un numero che ha sempre affascinato molto in ambito cinematografico. Seven, Seven Sisters, Sette spose per sette fratelli, I Magnifici Sette, giusto per fare qualche banale esempio. Ma anche il numero che, statisticamente, viene in mente alla maggior parte di coloro a cui viene chiesto di scegliere un numero fra 1 e 10 (fate una prova con un manipolo di amici e vedrete).
Anche in 7 Sconosciuti a El Royale il numero sette comprende un variegato gruppo di interpreti, l’uno più ambiguo dell’altro. Esser guardinghi è un dovere. Specie se non si riesce a distinguere fra anime candide e personalità dal sapore alquanto tetro. Ogni ruolo è un archetipo: l’uomo di chiesa, la hippie, la cantante black, il venditore di aspirapolveri, e poi il guru, la bambina, il concierge. Ma nessuno di loro è quel che sembra, e nessuno è innocente.
Il film, che può vantare un cast assolutamente di prim’ordine e una notevolissima colonna sonora, nasce da un’idea di Drew Goddard, sceneggiatore di ”Cloverfield”, ”World War Z” e ”The Martian”, nonché l’autore e regista dell’inquietante ”Quella casa nel bosco”
Nel cuore degli Anni Sessanta un uomo affitta una stanza all’hotel El Royale, una particolarissima struttura ricettiva, perché una lunga e larga striscia rossa che corre sul pavimento delle sale interne e degli spazi esterni, nel mostrare l’esatto confine fra California e Nevada, lo sfetta praticamente a metà.
Il tizio misterioso entra nell’ambiente e, dopo una fase di studio (rimarcata da una scena agile e carina), vi nasconde una borsa voluminosa, scardinando alcune assi del pavimento. Pochi attimi dopo, tuttavia, apre la porta a un uomo dall’identità ignota (e che tale resterà), che lo fa secco all’istante con un colpo di fucile.
Dieci anni dopo alcuni clienti, accolti da un concierge che sulle prime appare tanto sprovveduto quanto polivalente (serve al bancone del bar, fornisce le chiavi delle stanze, si occupa di pranzo, colazione e rifornimento della dispensa) decidono di soggiornare nello stesso albergo, che da un lato ha le camere in Nevada – identificato come lo stato del vizio, dell’illegalità e del gioco d’azzardo – dall’altro quelle in California – lo stato dell’amore libero, della contestazione e di Hollywood.
Uno dopo l’altro, i personaggi riveleranno la loro vera natura: perché in ‘7 sconosciuti a El Royale’ il miglior modo per seguirne la trama e gustarsi la suspence non consta tanto nel concentrarsi sulla vil moneta contesa, quanto sui motivi che han portato ciascuno in un luogo così isolato e così dotato di fascino induttivo. Come essere al confine fra Bene e Male. Del resto, il contesto storico in cui è innestata la pellicola è piuttosto turbolento: la guerra nel Vietnam, i proclami di Nixon, le spie di J. Edgard Hoover, le battaglie per i diritti civili.
Drew Goddard è stato in grado di creare un puzzle a cui ha volutamente sottratto qualche tessera per acuirne l’appeal rispetto allo spettatore, disseminando nelle sequenze diverse caselle vuote, quasi divertendosi ad indurre il pubblico a elaborare proprie congetture sulle varie fasi del film. Non mancano sequenza molto forti e colpi di scena improvvisi (vi si ritrova spruzzate di Quentin Tarantino e di David Lynch), del resto valorizzate da attori di calibro (Jeff Bridges, Jon Hamm), talvolta non supportati appieno da celebri ormai parimenti celebri come Dakota Johnson e Chris Hemsworth, laddove questi si limitano, per lo più, a opporre alla cinepresa la loro pur notevole presenza estetica.
La musica Motown (leggendaria etichetta discografica di Detroit, la celebre città dei motori: che è stata, dagli anni ‘60 ai primi ’80, un simbolo dell’emancipazione, sia economica che artistico-culturale, del popolo Black: e che produceva la prima vera musica che piaceva al popolo dei Bianchi) domina la scena e ne caratterizza un impianto che resta comunque robusto nel trasmettere sensazioni e stati d’animo, pur quando talvolta scivola nella ruffiana intenzione di appagare, per singoli stadi, l’altrui voyeurismo (Goddard mette a disposizione del pubblico una specie di “corridoio segreto”, ubicato in un retro celato e ovattato; e che ha la caratteristica di scorrere parallelamente alle stanze dell’albergo e che dà la possibilità di osservare cosa vi accade all’interno senza essere visti – posto che, come dianzi detto, non mancano scene alla Pulp fiction).
Cynthia Erivo, da poco passata al grande schermo, interpreta, con la sua voce potente, la star dei musical di Londra e di Manhattan. Volendo dirla tutta, le vere fondamenta della narrazione si poggiano fiere sul suo talento musicale e, non senza sorpresa, anche interpretativo (per quanto di fresco collaudo). Molto di sostanza è il suo crudo dialogo con il manager (un Xavier Dolan, ricco sfondato e senza alcuno scrupolo, una specie di schiavista ripulito che annovera la capacità di sapere esprimere una gran faccia da schiaffi): bravissima nel mostrare la sofferenza di chi è consapevole di possedere un talento assai sproporzionato rispetto alla sua diaria da 12 euro l’ora.
‘7 sconosciuti a El Royale’ si svolge nello spazio assai ristretto di un motel, e non perde tempo in flashback ed esposizioni retrospettive. Tutto è in divenire, le carte di ciascuno dei protagonisti si scoprono a poco a poco. Non mancano citazioni letterarie e cinematografiche.
Un film che sa farsi apprezzare, pur senza la pretesa di restare negli annali dei Cult.
Magari davanti a una birra di qualità e immersi un ambiente soffuso.
Nel quale lasciarsi ritemprare dalla fantastica colonna sonora.
Perché dire che la musica è in grado di accarezzare l’anima, non è affatto tesi peregrina.
Specie quando parliamo di un’epoca storica assai illuminata in tal senso.
Un vero e proprio spartiacque.
Una frontiera nuova, dalla quale la grande arte del suono ha saputo diffondere, forse, il meglio di sé.