“Captive State” è un ottimo esempio di come, anche nel tempo attuale, i film intriganti e dalle trame ben congegnate si possono intessere senza eccedere in roboanti effetti speciali.
In premessa, come tutti sanno, gli Stati Uniti non hanno mai subito occupazioni territoriali da parte di “stranieri”. Ed ecco che sono gli stessi americani (nella fattispecie tramite il regista Rupert Wyatt, già fattosi notare per una sci-fi intelligente – e a budget relativamente limitato – ovvero ”L’alba del pianeta delle scimmie”) ad inventarsi scenari di invasione, distruttiva, perniciosa, orribile. Quasi per assaporare “l’effetto che fa”.
In ogni modo, signore e signori, nella pellicola in questione il mondo non è più degli umani. Gli alieni ce l’hanno sottratto. E in un maniera così stabile che la gestione è diventata addirittura di tipo “politico”, con la forzosa e passiva collaborazione di senzienti istituzioni locali.
Una famiglia cerca di scappare da Chicago, ormai presidio alieno. Ma la fuga non ha successo, e gli unici a rimanere in vita sono solo due giovani fratelli: Rafe e Gabriel.
Nel 2025, nove anni dopo, scompare Rafe, dato per morto. Ma in realtà s’è unito alla “Resistenza”, che non accetta l’imperituro giogo dei signori dello spazio. Gabriel, invece, ironia della sorte, svolge un lavoro a dir poco particolare. Dai chip interni dei cellulari estrae dati che vanno continuamente ad arricchire gli archivi digitali degli alieni, trovando pure la maniera di tirarci su qualche dollaro al mercato nero.
Insieme a un amico, prepara una barca per scappare via dalla città; ma i suoi piani vengono di fatto compromessi dal ritorno del fratello Rafe e dalle incursioni terroristiche della resistenza.
Tali rappresaglie vengano passate al vaglio del detective William Mulligan (un sempre imponente John Goodman), che vuole tutelare il quartiere di Pilsen dalla veemenza in cui può sfociare il dominio alieno, oltre che dalla sete di vendetta che li contraddistingue; specie ogni qualvolta gli umani – e all’inizio della pellicola ciò viene reso evidente – si industriano per mettere in atto sempre più bellicose sortite.
Il ritmo è serrato, le scene concatenate, i dialoghi secchi ed essenziali. La godibilità della visione si giova poi della straordinaria colonna sonora di musica elettronica, incalzante e originale, firmata da Rob Simonsen e caratterizzata da eccellenti sonorità.
Captive State racconta gli Stati Uniti conquistati senza manfrine e sterili semplificazioni; il nutrito manipolo dei Resistenti è costretto a muovere ogni passo in totale clandestinità, sempre attenti a innescare ogni mossa con acume ed enorme spirito di sacrificio ed adattamento. Un film duro, articolato nei suoi segmenti, che compongono un unico grande quadro programmatico. Spesso, per motivi di praticità e a beneficio della fluidità, ai molti personaggi che si susseguono nell’arco del film nemmeno si dà un nome. Questi vengono identificati con il luogo dove appaiono per la prima volta, facendo sì che subito se ne possa desumere la funzione. Si recita molto di espressioni, secondo un canovaccio descrittivo molto ben congegnato e parecchio attento a non scadere in fasi di blanda retorica.
Tra i ribelli, troviamo attori da piccolo schermo come James Ransome e Ben Daniels; il cast annovera anche l’ottimo Jonathan Majors (”Hostiles”), che nei panni di Rafe deborda in tutta la sua capacità espressiva. Vera Farmiga interpreta una misteriosa prostituta, che ha un ambiguo rapporto con il dectective interpretato da un John Goodman che, pur collaborazionista con le forze di “governo” sottomesse allo strapotere alieno ostenta un grande senso di protezione nei confronti di Gabriel, (l’ex ragazzino di ”Moonlight” Ashton Sanders). A capo delle forze di polizia cittadina abbiamo poi Kevin Dunn (”Veep”).
Film di brillante sceneggiatura, ben scritto dal regista con la moglie Erica Beeney, che richiama altre celebri pellicole di Melvilliana memoria come ”La battaglia di Algeri’‘ e ”L’armata degli eroi’‘. Un lavoro intenso, a tratti teso a rappresentare la durezza di una vita condotta all’ombra di un impero senza scrupoli e che non ammette rivolte. Un regime che impone al “suddito” l’obbligo di “indossare” dotazioni di controllo (Le classiche cimici sotto pelle, tanto per intenderci, qui strutturalmente molto simili a quelle di Matrix dei fratelli Wachowski). Uno stato delle cose così pressante che porta lo spettatore, com’è naturale che sia, a fare il tifo per la Resistenza, tant’è che si tende ad esultare quando viene perpetrato, in una fase grossomodo centrale del film, un attacco frontale alla magione aliena, che porterà gli stessi invasori ad approntare misure repressive molto drastiche. I protagonisti si battono senza sosta contro l’arroganza aliena, pur senza disporre di superpoteri; escogitano di continuo misure alternative per non far scoprire il loro bacino reazionario e le loro dinamiche ubicazioni. Usano l’astuzia, l’intelligenza e la conoscenza. Il che, paradossalmente, dona al film maggiore realismo rispetto a tanti altri film di genere.
Ah, gli alieni? Quasi non si vedono. Ma possiamo garantirvi che la maestria del supporting team è tale da renderne spaventose anche le sole ombre sul selciato e quei respiri che sembrano provenire da una fiera mitologica ferita e in preda ai tremori d’un freddo glaciale.
La pellicola contiene anche un “messaggio”: anche laddove indici e indicatori economici plaudono a una potenziale condizione di benessere, nulla è più prezioso di libertà e giustizia. Per cui anche fiumi di denaro, in loro mancanza, varrebbero meno di zero.
Captive State è un ottimo prodotto. Volendo anche passibile di un sequel.
A meno che, alla prossima occasione, il cinema americano non voglia farsi passare lo sfizio di “autoinvadersi” con un nemico ancora diverso.