Daniele Del Giudice, uno dei più grandi scrittori italiani contemporanei, morto il 2 settembre a 72 anni, aveva mostrato il suo sguardo originale sul mondo e sulla letteratura e creato nuovi territori narrativi fin dal suo straordinario esordio con ‘Lo stadio di Wimbledon’ nel 1983 che aveva conquistato Italo Calvino, suo scopritore e autore della quarta di copertina della prima edizione.
“E’ stato uno dei più grandi scrittori del 900 italiano. È veramente una perdita enorme”, come ha detto il ministro della Cultura Dario Franceschini.
E’ meglio raccontare o esistere? Su questo territorio si è spinto Daniele Del Giudice, che ha indagato con lucidità il mistero e l’irraggiungibile. Colpito dall’Alzheimer troppo presto, con il quale ha fatto i conti per tanti anni, Del Giudice, al quale nel 2014 era stato concesso un assegno straordinario del vitalizio Legge Bacchelli, ci ha lasciato a pochi giorni dalla consegna del Premio Campiello alla Carriera 2021.
Per due volte, nel 1994 e nel 1997, Del Giudice è stato selezionato per il Premio Campiello. Nato a Roma l’11 luglio 1949, Del Giudice si era spostato a Milano e poi definitivamente a Venezia, città che amava e dove è stato il promotore del laboratorio permanente e progetto culturale ‘Fondamenta’ del cui comitato scientifico hanno fatto parte José Saramago, Claudio Magris e Predrag Matvejević . Giornalista e critico, pilota dilettante, appassionato di volo e di viaggi, nel 1990 aveva fatto una lunga escursione in Antartide da cui è nato un Taccuino australe, agli esordi ha lavorato a ‘Paese Sera’ come giornalista e critico. Nel 2002 gli è stato assegnato il Premio Feltrinelli – Accademia dei Lincei per il complesso della sua opera narrativa. Tra i numerosi riconoscimenti ricevuti anche il Premio Viareggio Opera Prima nel 1983, il Premio Giovanni Comisso nel 1985, il Premio Bergamo nel 1986.
Lo stadio di Wimbledon
Il protagonista dello “Stadio di Wimbledon”, – primo romanzo di Del Giudice è un giovane che si mette sulle tracce di un certo personaggio, amico di Saba e Montale e incontra le persone che lo conobbero, reticenti o evasivi custodi di un mistero. Di lui rimane soltanto un’invincibile fascinazione e nessun libro. Trieste, dove il viaggio comincia per terminare a Londra, riserva sorprese e il silenzio di una vita trascorsa nonostante la letteratura. La ricerca è difficile, attraversa luoghi e persone, donne che vengono dalla poesia come Gerti e Ljuba e uomini della memoria e del sogno. L’autore narra con ritmo lento e avvolgente, descrivendo il qui e l’adesso ma lasciando immaginare un altrove lontano e magico, come in certe pagine di Handke o in certe immagini di Wenders. Arrivare al centro dell’esistenza di quell’uomo sfuggente, che preferì la vita alla letteratura, vorrà dire per il viaggiatore aver scoperto una rinata possibilità di guardare e raccontare il mondo (novità subito colta dalla critica), partire dalla rinuncia al libro per giungere a un romanzo, quello che il lettore ha ora tra le mani, toccando il nodo di una realtà fluttuante, fatta di sospensioni e accelerazioni, di interrogazioni che provocano altre interrogazioni.
Atlante occidentale
L’enorme acceleratore nucleare nel cuore dell’Europa, dove Pietro Brahe lavora sugli elementi ultimi della materia, è un vortice da cui stanno per nascere nuovi oggetti e nuovi linguaggi: accelerazione di un mondo dove le cose perdono la loro natura di cose e diventano pura immaginazione, pura energia, pura luce. È su questa luce, ancora da fermare e da scrivere, che lavora Epstein, sapendo che non potrà più «accucciarsi tra le parole», che dovrà partire da quella inedita consistenza per cercare il proprio tempo, per raccontare una geografia mobile nella quale «io» e «qui» sono soltanto un punto precario sulla carta, un singolare Atlante degli oggetti, dei corpi, dei sentimenti.
L’incontro tra i due diventa fascinazione reciproca, desiderio di confrontarsi, di mettersi alla prova, e darà il suo frutto: esperimento riuscito, come quello di Del Giudice, che con Atlante occidentale ha aperto la narrazione contemporanea all’insorgere del non previsto, misurandosi con le mutazioni radicali del nostro tempo.
Nel museo di Reims
“È da quando ho saputo che sarei diventato cieco che ho cominciato ad amare la pittura”. Inizia così il racconto di Barnaba, un giovane ex ufficiale di Marina che a causa di una malattia “malcurata” sta perdendo progressivamente la vista. Barnaba ha deciso di sfruttare il tempo che gli rimane per fissare nella memoria alcuni capolavori dell’arte. E per questo che lo troviamo nel museo di Reims, tra le tele di Corot, Géricault e Delacroix. Ma Barnaba è li per un quadro in particolare: il Marat assassine di David. Quella tela, da quando l’ha vista in una riproduzione, è diventata un piccolo rovello: ha subito sentito che in qualche modo lo riguardava. Mentre Barnaba si aggira per le sale del museo, aggrappandosi ai dettagli per dare una forma ai dipinti la voce accesa e leggera di una donna gli si affianca. È Anne, di cui Barnaba non riesce ad afferrare nemmeno il colore esatto degli occhi. Anne ha indovinato il suo segreto e inizia a descrivergli i quadri che lui quasi non vede. Tra i due nasce come un gioco fatto di pudica sensualità, di intima tenerezza. Perché Anne in alcuni casi mente, racconta quello che non c’è, inventa particolari. E Barnaba lo sa. La voce di Anne diventa il filo da seguire nel labirinto che è il museo, che è la letteratura, alla scoperta di passaggi segreti, di percorsi di senso. E Barnaba si lascia condurre, prendendo a sua volta la parola per raccontare il “suo” Marat, in un continuo scambio di ruoli, quasi un codice amoroso.
Orizzonte mobile
Mentre narra la propria spedizione antartica, Daniele Del Giudice ripercorre i taccuini di quelle coraggiose spedizioni altrimenti sconosciute ai più, con naufragi, navi imprigionate mesi e mesi tra i ghiacci, equipaggi indomiti, marinai sull’orlo della disperazione o annientati dalla follia: sono gli ultimi veri racconti d’avventura, che hanno fissato il mito e la memoria di questa Terra Incognita. Con un lavoro di intarsio, al confine tra vita e letteratura, l’autore ricostruisce una “iperspedizione” che collega fra loro episodi di viaggi storicamente realizzati, ripercorrendoli sui sentieri del mondo e su quelli della scrittura. Giocando sulla diversità delle prospettive e delle voci, ci offre un “orizzonte mobile” nello spazio e nel tempo ma stabile e duraturo nei sentimenti che suscita. Un viaggio fuori dal tempo, dentro un paesaggio ipnotico e indifferente all’uomo, di sublime bellezza: dal giallo ocra delle pampas ai ghiacciai che colano in acqua, tra cime rocciose, nevi eterne e precipizi. Davanti agli occhi, un orizzonte di ghiaccio e luce, sempre sfuggevole. Sono luoghi, storie, giorni, anni, ere geologiche che resistono alla prospettiva lineare del semplice raccontare. Una millenaria geometria naturale che ogni cosa stratifica, ogni memoria cristallizza. Un mondo simultaneo di cui questo libro è il canto.
In questa luce
Si raccoglie qui tutto ciò che per Del Giudice fa mania. Intendendo per mania una parola doppia, una parola male-bene: nel mondo greco mania indica infatti non soltanto il demone che sconvolge la mente, ma anche una particolare forma di concentrazione, una forma estrema del conoscere e del coincidere con il proprio destino. È mania la mezzanotte, ventiquattresima ora del giorno, istante ultimo e anche primo, valico del giorno passato e incipit del nuovo, ora ventiquattro e ora zero; è mania il proprio lavoro, scrivere e narrare, in cui secondo Del Giudice sarebbe meglio possedere un doppio passo, essere ambidestri, con una mano tracciare delle mappe, costruire dei progetti e con l’altra operare perché questi progetti vengano invalidati dalla narrazione, perché ciò che vale nel racconto è proprio tutto quanto eccede e vanifica il progetto. Sono mania la luce, le macchine, le città, lo spazio, le fortezze reali e quelle immaginarie, le carte geografiche, il cinema e la fotografia. I protagonisti dei libri piú famosi di Daniele Del Giudice. Si ritrovano in queste pagine le riflessioni sul tempo e quelle sul volo («Come quando l’aereo si stacca da terra, una sospensione nebulosa e via, la scrittura spinge su, dentro i carrelli»). Si parla, con estrema e acuta intelligenza, del leggere, degli autori e dei libri piú amati, del tradurre, delle storie e dei personaggi, del trovarsi davanti al foglio bianco e del «levare ad ogni frase la terra sotto i piedi».
I racconti
C’è un’utopia malinconica nei racconti di Del Giudice. Si trova in una scena ricorrente: qualcuno comunica a qualcun altro la sua passione conoscitiva; e, nel farlo, trova nell’altro una rispondenza, una condivisione; suscita una curiosità viva, sincera. Di conseguenza, la relazione a due è la più vera, perché solo nelle relazioni a due si può fondare la fiducia necessaria per aprirsi a vicenda una soglia, e ospitarsi l’un l’altro. Ma questo tipo di fiducia – è la prima sorpresa che procurano questi racconti – non consiste nel comunicare una situazione interiore; al contrario, il suo contenuto è qualcosa di esterno. Non si fa una confidenza intima, non ci si racconta un segreto ma si descrive un oggetto, un mestiere, una caratteristica tecnica: i particolari di un quadro, la polvere, l’orecchio assoluto, la decomposizione, la lotta, l’architettura cimiteriale, le fortezze militari, le comete…Il rapporto fra due persone ha bisogno di una triangolazione: i loro sguardi debbono convergere su una cosa messa a fuoco in comune. È questa la scena primaria dei racconti di Del Giudice: ed è anche la loro scena ultima, perché lì convergono non solo gli sguardi e gli interessi cognitivi, ma soprattutto i desideri, le attrazioni, le destinazioni sognate dai protagonisti.