In questi mesi di viaggi più o meno fantastici intorno allo spazio e, soprattutto, intorno al tempo, sviluppo sempre maggiormente una passione per le origini. Una crescente necessità di indagare la genesi di ciò che viviamo quotidianamente si è avviluppata come avesse tentacoli, in un nuovo bisogno primario. Una schiera di piccole ma potenti ventose imprigionano i sensi impedendo loro di riemergere senza l’ausilio di una ragione indagatrice. Più che ricercare ciò che sarà questa ragione vuol comprendere ciò che è stato, come se nel passato potesse trovarsi un frammento di futuro. Ed in effetti la scia che lasciamo dietro può sempre essere utilizzata per tracciare la rotta futura, a patto di avere i corretti strumenti di misura e l’adeguata conoscenza delle stelle.
S’è fatto un gran parlare del personaggio di Joker nei mesi appena strappati dai calendari. Un frastuono tale che quasi l’interesse per l’uscita del nuovo iPhone pareva venire intaccato. Ma nemmeno la grande interpretazione di Phoenix può riuscire in un’impresa così potente e moderna. Qualsiasi sia il giudizio su questa pellicola è chiaro a tutti che si sia ricercata una storia sull’origine dell’iconico personaggio. Esatto, un’origine. Se volessimo scavare anche noi nel terreno paludoso del clown dove giungeremmo? Molti risponderebbero indicando un fumetto. Alcuni probabilmente citerebbero la prima apparizione di Batman del 1940, che vede la contemporanea nascita dell’eroe mascherato e della sua nemesi, quasi fosse un parto gemellare. Tutto corretto, ma non è sufficiente. Quest’oggi è necessario dapprima tornare indietro nel tempo più di qualsiasi altro viaggio. Perché se è vero che le origini del clown sono da ricercarsi nella carta è altrettanto vero che non si tratta di quella colorata di un fumetto del secolo appena trascorso, ma delle pagine ocra di un romanzo del secolo che lo ha preceduto. Tra questi due poi si frappone un medio imprescindibile per la comprensione profonda della sua psiche.
Siamo nell’aprile del 1869 in una sperduta isola del Regno Unito situata nel canale della Manica. Victor Hugo si trova qui in esilio da quasi vent’anni. Ha appena terminato di scrivere il monologo finale del suo ultimo romanzo, L’uomo che ride. Gwynplaine è il nome del protagonista. Mutilato nel volto in tenera età, possiede delle cicatrici che lo costringono in un perenne ghigno, qualsiasi emozione stia provando. Quanto più la tristezza lo assale tanto più esternamente il volto si contrae in un apparente sorriso. La sua condizione lo ha tenuto ai margini della società, consentendogli di sopravvivere solo come clown all’interno di un circo. Le vicende che percorrono la sua esistenza sono lacerate come il suo volto e come quest’ultimo nascondono una sofferenza profonda e universale, come fosse connaturata all’intero genere umano. Nel potente monologo finale, prima di lasciarsi morire nelle gelide e del tutto indifferenti acque del mare si può leggere chiaramente il DNA di quel personaggio che riteniamo essere così moderno, ma che in realtà possiede radici profonde come quelle di una quercia.
“Io sono colui che viene dalle profondità. Milord, voi siete i grandi e i ricchi. È pericoloso. Approfittate della notte, ma state in guardia, c’è una grande potenza, l’aurora. L’alba non può essere vinta. Arriverà. Sta già arrivando. E ha in sé un irresistibile fiotto di luce. E chi impedirà a questa fionda di scagliare il Sole nel cielo? Il Sole è il diritto. Voi, invece, siete il privilegio. Abbiate paura. Il vero padrone di casa sta per bussare alla porta. Chi è il padrone del privilegio? Il caso. E chi è il suo figlio? L’abuso. Né il caso né l’abuso sono solidi. Hanno entrambi un pessimo domani. Io vengo ad avvertirvi. Vengo a denunciarvi la vostra stessa felicità. È fatta dell’infelicità altrui. Voi avete tutto, ma il vostro tutto è fatto del nulla degli altri. Milord, io sono l’avvocato senza speranza, difendo una causa persa. Questa causa la vincerà Dio. Io non sono niente, sono solo una voce. Il genere umano è una bocca e io sono il suo grido. […] Sono stato gettato nel baratro. A che scopo? Perché ne vedessi il fondo. Sono un sommozzatore che riporta a galla una perla, la verità. Parlo perché so. E voi mi ascolterete, milord. Io ho provato. Ho visto. La sofferenza, no, non è una parola, signori felici. La povertà? Ci sono cresciuto. L’inverno? Mi ha fatto battere i denti. La fame? L’ho patita. Il disprezzo? L’ho subito. La peste? L’ho avuta. La vergogna? L’ho trangugiata. E la rivomiterò davanti a voi e questo vomito d’ogni miseria vi schizzerà sui piedi e divamperà. […] Questo mondo fatale in cui credete di vivere, voi non lo conoscete; siete così in alto da starne fuori; vi dirò io com’è. Di esperienza ne ho. Arrivo da sotto. Posso dirvi quanto pesate. Voi, i padroni, sapete cosa siete? Ciò che fate, lo vedete? No. Ah! Com’è tutto terribile. […] Che ci faccio qui? Vengo a essere terribile. Sono un mostro, voi dite. No, sono il popolo. Sono un’eccezione? No, sono come chiunque. L’eccezione siete voi. Voi siete la chimera, io sono la realtà. Io sono l’Uomo. Sono lo spaventoso Uomo che Ride. Ride di cosa? Di voi. Di se stesso. Di tutto. Cos’è il suo riso? Il vostro delitto e il suo supplizio. Questo delitto ve lo getta in faccia; questo supplizio ve lo sputa in viso. Io rido, che vuol dire: io piango. […] Questo riso esprime la desolazione universale. Questo significa odio, silenzio forzato, rabbia, disperazione. Questo riso è il frutto delle torture. Questo riso è un riso coatto. Se Satana ridesse in questo modo, il suo riso condannerebbe Dio. Ma l’eterno non somiglia ai mortali; essendo l’assoluto è giusto; e Dio odia ciò che fanno i re. Ah! Voi mi prendete per un’eccezione! Io sono un simbolo. O stupidi onnipotenti, aprite gli occhi. Io incarno tutto. Io rappresento l’umanità così come l’hanno fatta i suoi padroni. L’uomo è mutilato. Quello che hanno fatto a me, l’hanno fatto al genere umano. Gli hanno deformato il diritto, la giustizia, la verità, la ragione, l’intelligenza, come a me gli occhi, le narici e le orecchie; come a me, gli hanno messo nel cuore una cloaca di collera e di dolore, e sulla faccia una maschera di allegria. […] Il popolo è qualcuno che soffre intimamente e ride in superficie. Milord, vi dico che il popolo sono io.”
Scopriamo così senza possibilità di dubbi che il padre del “folle” clown non è Bob Kane né Bill Finger, ma un più insospettabile Victor Hugo. Dal nulla nulla si crea. Eppure non è sufficiente. Manca un anello di congiunzione tra i due mondi. Accennavo infatti ad un medio tra la nascita di Gwynplaine e la sua trasmutazione in Joker. È il 1928, ma si tratta di un’altra storia e verrà raccontata più avanti.