Di cliniche e alberghi riservati solo a determinate categorie di clienti, specie nell’ultimo dodicennio, se ne rinvengono eccome in cinematografia. Come se alcuni registi avessero un bisogno, nemmeno troppo recondito, di creare dei piccoli grumi di impenetrabilità, cui ricorrere – quantomeno in alcuni dei casi in cui mi sono imbattuto (vedasi 7 Sconosciuti a El Royale) – ogni qualvolta le singole trame presentino momenti di debolezza o bramino l’esigenza di ripartire con un diverso respiro narrativo.
Hotel Artemis non si sottrae a questa “logica”, laddove anche in tal caso, intorno al fortino “inespugnabile”, accade qualcosa di assai simile a una miniatura di fine del mondo. Un film che, per quanto ben costruito in taluni frangenti, evidenzia ab initio una genesi spigolosa e abbastanza frastagliata: con una sceneggiatura e una produzione che non riescono a effettuare una efficace colmatura tra ambizioni e budget.
Veniamo alla Trama: 2028. Sherman e Lev hanno la bella idea di svaligiare una banca proprio durante un giorno molto particolare. Infatti, sta per avvenire la già annunciata rivolta di Los Angeles, con animi della cittadinanza parecchio infervorati rispetto, udite-udite-udite, alla privatizzazione dell’acqua.
A valle di uno scontro a fuoco con la polizia, Lev rimane gravemente ferito. Ed è in condizioni tali che solo un pronto trasporto presso l’Hotel Artemis, la clinica segreta riservata a una ristretta cerchia di fuorilegge, può salvargli la vita. In un amen, poi, la collisione tra le frizioni interne all’Artemis e quella che sta bruciando l’asfalto delle strade di Los Angeles darà luogo a una incontrollabile spirale di violenza.
Allora, facciamo una riflessione molto semplice: Drew Pearce – quotato sceneggiatore dell’area Hollywoodiana, con all’attivo titoli come ‘Iron Man 3’ e ‘Mission Impossible: Rogue Nation’ – è artista dalle buone idee. Tuttavia, spesso gli accade di riproporre alcune di queste in altre sue pellicole, ovvero di snocciolarne in parte nel crono di altre sue opere, finendo così per ripetersi, pestando un po’ i piedi a se stesso.
Rammentiamo la fortunatissima saga di ‘John Wick’, che ad esempio ruota attorno all’hotel Continental e alla pregnanza delle sue regole; così simili, del resto, a quelle di ‘Hotel Artemis’.
In entrambe le magioni-rifugio è inammissibile che vengano commessi omicidi tra “clienti” dell’hotel (nonostante la palese deriva in base alla quale, alla fine, questi egualmente avvengano), si viene accolti solo se si appartiene a una cerchia davvero ristretta élite et similia.
Ma, al contrario del Continental di John Wick – che, grazie a quel suo singolare microcosmo che può contare su una tangibile cifra fumettistica, sa dotarsi, step by step, tanto di senso logico quanto di una credibilità asciutta e convincente -, il tessuto connettivo di “Hotel Artemis” non riesce mai a esplicare una palpabile veridicità nella propria struttura.
Personale operativo quasi assente e ospiti “abitudinari” che si contano sulle dita di una mano, in uno a uno spazio action sin troppo limitato, laddove va a espletarsi entro i confini di un numero troppo esiguo di stanze; e ciò anche a fronte della circostanza che trattasi di un edificio multipiano. Assolutamente fuori luogo, poi, la gigantesca insegna luminosa che viene mostrata in alcune scene, in antitesi con una delle caratteristiche principali del posto, ovvero la segretezza e la massima discrezione.
Sbavature che danno contezza di una produzione travagliata e tenuta insieme con lo scotch. L’ambientazione western non è poi l’ideale a fronte dello scopo narrativa, con un albergo in cui i personaggi restano assediati in ragione di quella specie di armageddon che fuori si sta svolgendo.
Degni di nota il comparto tecnico, la fotografia di Chung Chung-hoon e le musiche di Cliff Martinez.
Segnaliamo Jeff Goldblum (L’uomo che, dopo Le ragazze della Terra sono facili, ha poi impersonato a più riprese lo scienziato fuori dagli schemi nella serie di Jurassic Park e il ruolo di gran maestro in Thor-Ragnarok) nelle vesti del boss del crimine che indossa sandali e Dave Bautista (“I Guardiani della Galassia 1&2”, con una comparsata anche in “Avengers-Endgame”), ormai abituato al ruolo dello spaccatutto di buon cuore.
Il “Core” della pellicola gravita, tuttavia, intorno attorno al personaggio di Jodie Foster, infermiera-custode che nasconde un cuore materno; un’attrice che può annoverare un palmares sontuoso, tuttavia qui irrimediabilmente fuori spartito nella maggior parte delle scene che il copione le va a cucire addosso; forse anche un filo infastidita dal campionario di battute un po’ troppo sopra le righe (per i suoi standard) e il pesante make-up, che la invecchia in modo financo eccessivo rispetto alle esigenze stesse della sceneggiatura.
Un film che poteva essere sviluppato meglio; ma è evidente che certi meccanismi produttivi – ahinoi fin troppo coercitivi a scapito della qualità generale, in ragione del “Dio Denaro” e dell’esigenza di produrre in serie e con tempi molto contenuti -, non l’avranno consentito.