Il progetto Premio Wondy è nato nel 2018 in memoria della giornalista e scrittrice Francesca Del Rosso (1974-2016), conosciuta con il soprannome Wondy e autrice del volume ‘Wondy – ovvero come si diventa supereroi per guarire dal cancro’ nel quale ha raccontato con ironia e coraggio come ha affrontato la malattia.
“Raccontare la resilienza è una sfida per chi si esprime attraverso la scrittura ed è ancora più difficile farlo nel quadro degli eventi globali che hanno caratterizzato gli ultimi due anni. E’ proprio in momenti come questo però, che il lavoro di sensibilizzazione che portiamo avanti attraverso il Premio e le attività dell’associazione ‘Wondy sono io’ diventa più importante. Siamo entusiasti di aver ricevuto così tante proposte valide, testimonianze diverse della possibilità di far fronte in modo positivo agli ostacoli della vita e di trasformare le difficoltà in opportunità” ha detto Alessandro Milan, presidente dell’Associazione “Wondy sono io”.
Il 14 gennaio è stata selezionata la sestina finalista della quinta edizione del Premio Wondy per la letteratura resiliente composta da: ‘Cercando il mio nome’ (Feltrinelli) di Carmen Barbieri, ‘Tre gocce d’acqua’ (Mondadori) di Valentina D’Urbano, ‘La tigre di Noto’ (Neri Pozza) di Simona Lo Iacono, ‘Bianco è il colore del danno’ (Einaudi Stile Libero) di Francesca Mannocchi, ‘L’arte di legare le persone’ (Einaudi) di Paolo Milone e ‘Ciao vita’ (La nave di Teseo) di Giampiero Rigosi.
Cercando il mio nome di Carmen Barbieri
Anna e suo padre sono “due pupi mossi dalla stessa coppia di aste di metallo”, i fili che li legano sembrano destinati a non spezzarsi mai, il loro legame inviolabile. Ma non può essere così, non è mai così, e a diciannove anni, dopo una malattia che brucia il tempo, Anna perde il padre per un melanoma. Il rispecchiamento in lui è così forte, la sua figura così sensibile e piena di cura, così materna, che Anna perdendo suo padre perde se stessa, si confonde, senza lo sguardo di lui è come se fosse diventata niente. L’attraversamento del lutto diventa perciò, necessariamente, ricerca di sé, della propria femminilità, e finisce per passare attraverso una scarnificazione del corpo, il suo oltraggio. Trasferitasi da Napoli a Roma, usando l’università come un pretesto per allontanarsi dalla morte incombente, Anna si ritrova a doversi mantenere da sola, la madre non può aiutarla nelle spese né lei vuole gravare, così si indirizza a un prete grazie al quale la sua coinquilina ha trovato lavoro come ragazza delle pulizie. Il prete però la vede bella – “bisognerebbe proteggere la propria carne con squame più spesse di quelle che il lutto fa risplendere sopra le nostre teste. E invece ci esponiamo al sole dell’angoscia senza alcuna protezione, quasi a pretenderli, i segni sulla pelle di questo nostro attraversamento tisico del tempo” – e le propone un lavoro meglio pagato, in un night club. Anna è turbata, pensa di rifiutare ma poi accetta, e c’è repulsione e attrazione nel suo sì. Mescolato al racconto delle notti in cui si trasforma in Bube, con i muscoli tesi attorno al palo della lap dance, riemerge il passato, riemergono i vicoli e i bassi di Napoli, l’infanzia delle veglie con la nonna, i pomeriggi a fare i compiti con Alfredo e Cristina, e soprattutto il padre, la malattia che scompiglia tutto, la possibilità di esistere nonostante la morte.
Tre gocce d’acqua di Valentina D’Urbano
Celeste e Nadir non sono fratelli, non sono nemmeno parenti, non hanno una goccia di sangue in comune, eppure sono i due punti estremi di un’equazione che li lega indissolubilmente. A tenerli uniti è Pietro, fratello dell’una da parte di padre e dell’altro da parte di madre. Pietro, più grande di loro di quasi dieci anni, si divide tra le due famiglie ed entrambi i fratellini stravedono per lui. Celeste è con lui quando cade per la prima volta e, con un innocuo saltello dallo scivolo, si frattura un piede. Pochi mesi dopo è la volta di due dita, e poi di un polso. A otto anni scopre così di avere una rara malattia genetica che rende le sue ossa fragili come vetro: un piccolo urto, uno spigolo, persino un abbraccio troppo stretto sono sufficienti a spezzarla. Ma a sconvolgere la sua infanzia sta per arrivare una seconda calamità: l’incontro con Nadir, il fratello di suo fratello, che finora per lei è stato solo un nome, uno sconosciuto. Nadir è brutto, ruvido, indomabile, ha durezze che sembrano fatte apposta per ferirla. Tra i due bambini si scatena una gelosia feroce, una gara selvaggia per conquistare l’amore del fratello, che preso com’è dai suoi studi e dalla politica riserva loro un affetto distratto. Celeste capisce subito che Nadir è una minaccia, ma non può immaginare che quell’ostilità, crescendo, si trasformerà in una strana forma di attrazione e dipendenza reciproca, un legame vischioso e inconfessabile che dominerà le loro vite per i venticinque anni successivi. E quando Pietro, il loro primo amore, l’asse attorno a cui le loro vite continuano a ruotare, parte per uno dei suoi viaggi in Siria e scompare, la precaria architettura del loro rapporto rischia di crollare una volta per tutte.
Al suo settimo romanzo, Valentina D’Urbano si conferma un talento purissimo e plastico, capace di calare i suoi personaggi in un’attualità complessa e contraddittoria, di indagare la fragilità e la resilienza dei corpi e l’invincibilità di certi legami, talmente speciali e clandestini da sfuggire a ogni definizione. Come quello tra Celeste e Nadir, che per la lingua italiana non sono niente, eppure in questa storia sono tutto.
La tigre di Noto di Simona Lo Iacono
Questo romanzo narra di Anna Maria Ciccone, una donna e una scienziata che visse in un’epoca che le fu ostile, un tempo di ostinati pregiudizi e barbarie totalitarie. Nata a Noto nel 1891, partì dalla sua Sicilia e arrivò a Pisa poco prima che scoppiasse la Grande Guerra per studiare fisica: unica donna del suo corso. Insegnò alla Normale e seguì per un’intera vita le traiettorie e le intermittenze della luce, perchè la spettrometria era l’oggetto dei suoi studi. Studi che ebbero una vasta risonanza persino nel campo della nascente meccanica quantistica molecolare. Oggi diremmo che si impose in un mondo maschile. Ed è certamente vero. Oggi parleremmo della sua passione, della sua forza e del suo coraggio nel riuscire a salvare, nel 1944, i testi ebraici della biblioteca dell’università di Pisa dai nazisti che volevano requisirli e poi distruggerli. La sua figura non è riconducibile, tuttavia, soltanto alle sue pionieristiche ricerche o alle sue impavide azioni. Con uno sguardo che attraversa il suo tempo, Simona Lo Iacono ritrae la vita di una donna capace di affermare in ogni ambito dell’esistenza la forza della sua fragilità. Ne esce un romanzo che non si lascia definire, che ci costringe a convivere con una nostalgia tenace, il racconto di una geniale fisica e matematica che seppe mostrarsi al mondo con la compostezza e il pudore di chi, nel buio dell’universo, cerca di guadagnare sempre, con fede ostinata, un piccolo bagliore di conoscenza. Perchè, parafrasando Goethe, è proprio quando le ombre sono più nere che riusciamo a scoprire il potere della luce.
Bianco è il colore del danno di Francesca Mannocchi
Il corpo di una scrittrice, in apparenza integro eppure danneggiato, diventa lo specchio della fragilità umana e insieme della nostra inarrestabile pulsione di vita. Francesca Mannocchi guarda il mondo attraverso la lente della malattia per rivelare, con una voce letteraria nuda, luminosa, incandescente, tutto ciò che è inconfessabile.
Quattro anni fa Francesca Mannocchi scopre di avere una patologia cronica per la quale non esiste cura. È una giornalista che lavora anche in zone di guerra, viaggia in luoghi dove morte e sofferenza sono all’ordine del giorno, ma questa nuova, personale convivenza con l’imponderabile cambia il suo modo di essere madre, figlia, compagna, cittadina. La spinge a indagare sé stessa e gli altri, a scavare nelle pieghe delle relazioni piú intime, dei non detti piú dolorosi, e a confrontarsi con un corpo diventato d’un tratto nemico. La spinge a domandarsi come crescere suo figlio correndo il rischio di diventare disabile all’improvviso e non potersi quindi occupare di lui come prima. Essere malata l’ha costretta a conoscere il Paese attraverso le maglie della sanità pubblica, e ad abitare una vergogna privata e collettiva che solo attraverso l’onestà senza sconti della letteratura lei ha trovato il coraggio di raccontare.
L’arte di legare le persone di Paolo Milone
Quante volte parliamo dei medici come di eroi, martiri, vittime… In verità, fuor di retorica, uomini e donne esposti al male. Appassionati e fragili, fallibili, mortali. Paolo Milone ha lavorato per quarant’anni in Psichiatria d’urgenza, e ci racconta esattamente questo. Nudo e pungente, senza farsi sconti. Con una musica tutta sua ci catapulta dentro il Reparto 77, dove il mistero della malattia mentale convive con la quotidianità umanissima di chi, a fine turno, deve togliersi il camice e ricordarsi di comprare il latte. Tra queste pagine cosí irregolari, a volte persino ridendo, scopriamo lo sgomento e l’impotenza, la curiosità, la passione, l’esasperazione, l’inesausta catena di domande che colleziona chiunque abbia scelto di «guardare l’abisso con gli occhi degli altri».
Ci sono libri che si scrivono per una vita intera. Ogni giorno, ogni sera, quando quello che viviamo straripa. Sono spesso libri molto speciali, in cui la scrittura diventa la forma del mondo. È questo il caso dell’Arte di legare le persone, che corre con un ritmo tutto suo, lirico e mobile, a scardinare tante nostre certezze. Con il dono rarissimo del ritratto fulminante, Paolo Milone mette in scena il corpo a corpo della Psichiatria d’urgenza, affrontando i nodi piú difficili senza mai perdere il dubbio e la meraviglia. Cosí ci ritroviamo a seguirlo tra i corridoi dell’ospedale, studiando le urla e i silenzi, e poi dentro le case, dentro le vite degli altri, nell’avventura dei Tso tra i vicoli di Genova. Non c’è nulla di teorico o di astratto, in queste pagine. C’è la vita del reparto, la sete di umanità, l’intimità di afferrarsi e di sfuggirsi, la furia dei malati, la furia dei colleghi, il peso delle chiavi nella tasca, la morte sempre in agguato, gli amori inconfessabili, i carrugi del centro storico e i segreti bellissimi del mare. Ci sono infermieri, medici, pazienti, passanti, conoscenti, caduti da una parte e dall’altra di quella linea invisibile che separa i sani dai malati: a ben guardare, solo «un tiro di dadi riuscito bene». Ecco perché non si potrà posare questo libro senza un’emozione profonda, duratura, e senza parlarne immediatamente con qualcuno.
Ciao vita di Giampiero Rigosi
Sergio è un regista affermato, vive a Roma in una casa accogliente, con una compagna elegante e sicura di sé. Ma una sera riceve una telefonata in cui lo informano che Vitaliano, un vecchio amico che non vede da tantissimo tempo, sta attraversando la fase terminale di una rara malattia degenerativa. La notizia lo mette di fronte a un patto che si scambiarono quando erano due adolescenti inquieti e ribelli. Sergio e Vitaliano si sono conosciuti sui banchi delle scuole medie, nella Bologna degli anni Settanta, e per un decennio sono stati inseparabili: idealista, tormentato, ma studioso e posato il primo, istrionico, provocatore e animato da una vena autodistruttiva il secondo. La loro è stata un’amicizia profonda, cementata dalle passioni comuni per la letteratura, la musica e il cinema. Hanno condiviso viaggi, serate in osteria, la ferita dell’attentato alla stazione, un grande amore, la loro relazione viene persino lambita dall’ombra dell’eroina. Fino a che un momento di incomprensione profonda non li ha separati. A riavvicinarli dopo più di trent’anni è proprio la malattia di Vitaliano. La difficile decisione davanti a cui Sergio si trova – e che in diversi momenti cerca di eludere – si rivela anche un’occasione per rimettere in discussione la sua esistenza, il senso del suo lavoro e le relazioni professionali e affettive. Scritto con mano precisa e ricco di dialoghi nitidi e luminosi, un romanzo che segue il punto di vista dei due protagonisti sull’amicizia e il peso delle promesse.