L’Italia riparte e, dopo un anno di pausa, riparte anche il premio letterario ‘Matilde Serao’ promosso dal quotidiano Il Mattino ed intitolato alla co-fondatrice (nel 1892, con il marito Edoardo Scarfoglio) della testata napoletana voce del Mezzogiorno.
Il riconoscimento segnala ogni anno autrici il cui valore e la cui traiettoria contemporanea echeggiano l’impegno, letterario e giornalistico, di Matilde Serao: scrittrice, cronista, pioniera nel campo della scrittura e della comunicazione al femminile, donna di talento, napoletana di origini greche e di respiro europeo attenta a veicolare, attraverso i giornali del suo tempo (e non solo i sette da lei fondati e diretti), una cultura dalla parte delle donne, dell’infanzia e dei valori (anche spirituali), con battaglie dettate dalla sua anima incline al sociale. Un’autrice italiana, Serao, portatrice ante litteram di un “pensiero meridiano” e tradotta in diversi paesi del mondo; una donna innamorata della sua città ma capace di andare “oltre”, sconfinando con il suo successo, e l’autorevolezza delle sue posizioni, anche all’estero.
Il premio nasce proprio nel segno della “ripartenza” e premia la scrittrice Igiaba Scego (già vincitrice del Premio Napoli lo scorso anno con La linea del colore).
Igiaba Scego, vincitrice della quarta edizione del Premio — che nel suo albo d’oro annovera figure del calibro di Antonia Arslan (2017), Azar Nafisi (2018) e Dacia Maraini (2019) — è autrice in sintonia con la figura e con l’opera seraiana: nata a Roma nel 1974 da genitori somali in fuga dalla dittatura di Siad Barre, è figlia di genitori che le hanno trasmesso l’amore per l’indipendenza e per la narrazione. Il padre, Ali Omar Scego, era ministro degli Esteri prima del colpo di Stato in Somalia; la madre Kadija, di origini nomadi, le ha trasmesso il gusto del racconto e le tradizioni della sua civiltà, non a caso narrate da Igiaba nel suo esordio narrativo con il romanzo per ragazzi che ha dedicato proprio alla mamma: La nomade che amava Hitchcock (Sinnos, 2003). Scrittrice dal timbro originale, dopo la brillante laurea in Letterature straniere alla Sapienza e un dottorato di ricerca in Pedagogia a RomaTre, Igiaba Scego si occupa infatti di scrittura, giornalismo e ricerca incentrati sulla dimensione della transculturalità e del dialogo tra civiltà, nell’orizzonte (attualissimo) delle migrazioni e del postcolonialismo. Ha al suo attivo molti libri pluripremiati (romanzi e racconti per adulti e ragazzi, saggi, inchieste) e collabora con numerose riviste e alcuni quotidiani, da opinionista o curatrice di rubriche. Raggiunta dalla notizia del premio, si dice «onorata del riconoscimento, intitolato a una figura di donna che mi appassiona». Il nome di Scego è stato votato a maggioranza, tra una rosa di candidate finaliste, dalla giuria “allargata” del Premio Serao, composta dall’intera redazione del «Mattino» con le più autorevoli firme di opinionisti e collaboratori culturali del giornale, che ha ideato il riconoscimento letterario in collegamento con l’omonimo storico premio giornalistico, nato nel 2001 da un’idea di Antonio Corribolo, allora Consigliere Comunale di Carinola: cittadina d’origine della famiglia Serao. Con l’obiettivo di tenere viva la memoria della fondatrice de «Il Mattino», madre del giornalismo femminile e non solo.
La nomade che amava Alfred Hitchcock
Igiaba racconta in prima persona la storia di sua madre, Kadija, nata nel 1938: la sua infanzia da nomade, i giochi, il rapporto con i genitori, la cultura somala e le vicende politiche che la hanno portata, come tanti della sua generazione, a cercare nell’occidente ricco, pace e serenità. Il racconto è scorrevole, quasi un romanzo, e anche l’accenno delicato all’infibulazione offre uno strumento concreto per conoscere meglio una cultura che per molte vicende è stata influenzata dalla nostra. Anche alla fine di questo libro, giochi, leggende, ricette, bibliografie e indirizzi utili.
Adua
Adua è oggi una donna matura e vive a Roma da quando ha diciotto anni. È una vecchia Lira, così i nuovi immigrati chiamano le donne giunte nel nostro paese durante la prima ondata di immigrazione negli anni settanta. Ha da poco sposato un giovane Titanic, un immigrato sbarcato a Lampedusa, e medita di tornare in Somalia dopo la fine della guerra civile. Ormai sola (la sua amica Lul è già rientrata in patria e il giovane marito è interessato più a Facebook che a lei), Adua si confida con la statua dell’elefante che sorregge l’obelisco in piazza Santa Maria sopra Minerva. Piano piano gli racconta la sua storia: suo padre Zoppe, ultimo discendente di una famiglia di indovini, lavorava come interprete durante il regime e negli anni trenta baratterà involontariamente la sua libertà con la libertà del suo popolo. Adua, fuggita dai rigori paterni e dalla dittatura comunista, approda a Roma inseguendo il miraggio del cinema. Purtroppo l’unico film da lei interpretato, un porno soft dal titolo “Femina somala”, sarà fonte solo di umiliazione e vergogna. Solo adesso Adua sente di essere pronta a riprendere in mano la sua vita.
La linea del colore
Quanti di noi scendendo oggi da un treno a Roma Termini ricordano i Cinquecento cui è dedicata la piazza antistante la stazione? È il febbraio del 1887 quando in Italia giunge la notizia: a Dògali, in Eritrea, cinquecento soldati italiani sono stati uccisi dalle truppe etiopi che cercano di contrastarne le mire coloniali. Un’ondata di sdegno invade la città. In quel momento Lafanu Brown sta rientrando dalla sua passeggiata: è una pittrice americana da anni cittadina di Roma e la sua pelle è nera. Su di lei si riversa la rabbia della folla, finché un uomo la porta in salvo. È a lui che Lafanu decide di raccontarsi: la nascita in una tribù indiana Chippewa, lo straniero dalla pelle scurissima che amò sua madre e scomparve, la donna che le permise di studiare ma la considerò un’ingrata, l’abolizionismo e la violenza, l’incontro con la sua mentore Lizzie Manson, fino alla grande scelta di salire su un piroscafo diretta verso l’Europa, in un Grand Tour alla ricerca della bellezza e dell’indipendenza. Nella figura di Lafanu si uniscono le vite di due donne afrodiscendenti realmente esistite: la scultrice Edmonia Lewis e l’ostetrica e attivista Sarah Parker Remond, giunte in Italia dagli Stati Uniti dove fino alla guerra civile i neri non erano nemmeno considerati cittadini. A Lafanu si affianca Leila, ragazza di oggi, che tesse fili tra il passato e il destino suo e delle cugine rimaste in Africa e studia il tòpos dello schiavo nero incatenato presente in tante opere d’arte. Igiaba Scego scrive in queste pagine un romanzo di formazione dalle tonalità ottocentesche nel quale innesta vivide schegge di testimonianza sul presente, e ci racconta di un mondo nel quale almeno sulla carta tutti erano liberi di viaggiare: perché fare memoria della storia è sempre il primo passo verso il futuro che vogliamo costruire.