Il pianeta Terra ha appena terminato l’ennesimo moto di rivoluzione attorno alla sua stella. I festeggiamenti per l’avvenimento sono stati grandiosi e si sono succeduti per ventiquattr’ore in tutti gli insediamenti umani, dalle grandi megalopoli ai paesi più sperduti. Nessun confine è stato però tracciato e ciò che era, ancora è ed ancora sarà. Le domande che si trascinavano in precedenza sono filtrate come acqua in una parete porosa in questo nuovo giro cosmico, più forti di prima. Sono domande sull’origine e sulla genesi. Nello specifico si prova a far luce su un personaggio inafferrabile come quello di Joker. Una figura tra le più moderne ed attuali che ci siano, capace si destabilizzare ogni certezza su cui si fonda l’attuale società. Eppure questo essere atavico affonda le proprie radici nella cultura occidentale più antica, quella degli iocularis. Buffoni, pagliacci e giullari da innumerevoli secoli portano il caos entro i rigidi assetti del vecchio continente. Trovano posto già presso i greci con il nome di γελωτοποιός e ancora tra i nobili romani con quello di scurri. Durante tutto il Medioevo e finanche al Rinascimento non c’è corte che non ne vanti la presenza. Sono per lo più deformi, vestono in modo sgargiante ed hanno licenze e privilegi unici. Questi esseri nascondono nella loro apparente follia una profonda ed inaspettata saggezza, celandola sempre dietro giochi di parole e doppi sensi. A loro per secoli è stato demandato il compito di tramandare buona parte della cultura umanistica, specie ciò che era considerato profano. Lo spiccato senso per la teatralità è uno dei loro maggiori tratti distintivi. Sono esseri caleidoscopici, in grado di sorprendere per le loro abilità nei più disparati campi dell’agire umano. Ogni azione o frase è fonte di caos, persino i loro indumenti sono la sovversione degli stereotipi nei quali vivono. I colori cangianti si contrappongono alla monocromia dell’uomo per bene. Ogni sovrano si accompagna ad un giullare, lasciando che egli rappresenti la propria nemesi, il turbamento entro le inflessibili regole morali e politiche. Perché è di moralità e politica che in primis si tratta. Questi sono i due binari quasi mai paralleli lungo i quali l’occidente è giunto fino a noi. E sono questi binari che il giullare principalmente piega, intreccia e sovverte. Spesso raggiunge il risultato con la volgarità e con l’oscenità, altre mostrando punti di vista unici e insospettabili per gli uomini comuni. È una figura archetipica che si perde nella notte dei tempi. Si potrebbe persino citare il taijitu taoista con la sua coscienza che ordine e caos sono inscindibilmente legati, entità che si compenetrano e per questo indissolubili.
Nulla è cambiato. In un mondo in cui il palcoscenico si è ampliato a tal punto da perdere ogni confine, il giullare ha totale campo libero. Il teatro è il mondo intero. L’antica nobiltà ha fatto spazio alla moderna borghesia e nessuno è immune alle critiche. A rappresentare il Re di volta in volta è possibile delegare qualcuno, che sia egli un ricco imprenditore, un politico corrotto, un malavitoso o un giustiziere mascherato che della legalità ha fatto il suo vessillo. Tutto ciò che possiede regole è un potenziale bersaglio del giullare. E nel moderno caos le armi a disposizione sono illimitate. Da secoli non esiste gioco che non preveda un Joker, ossia un momento di rottura delle regole in cui al contempo c’è sempre la possibilità di una grande vincita o di una rovinosa perdita. Mai come in questo caso gioco e vita reale si compenetrano.
È necessario però allontanare adesso il caos nel quale siamo caduti per darci delle regole ferree.
Per voler delineare una nascita letteraria più netta del Joker moderno la settimana scorsa eravamo approdati in un’isola sperduta della Gran Bretagna, Guernsey, dove un esule Victor Hugo aveva appena partorito il personaggio di Gwynplaine, un giovane dal volto bianco ed i capelli tinti, condannato ad un’eterno ghigno a causa di uno sfregio subito in tenera età. Anch’egli girovago presso un circo è intimamente legato alla nobiltà per discendenza, rappresentando in pieno il caos del giullare. Siamo nell’aprile del 1869 ed il romanzo si intitola “L’uomo che ride“.
Bisogna però risalire la corrente del tempo per quasi sessant’anni e giungere al 1928 per donare un reale volto a questo personaggio. È il tedesco Hans Walter Konrad Veidt, sotto la direzione del connazionale Paul Leni, a farsi carico del compito, trasformando le parole scritte in un’immagine ormai divenuta iconica. Veidt lo interpreta con una tale maestria da innalzarsi a stella polare per tutte le successive incarnazioni di Gwynplaine, anche e soprattutto quando il suo nome muterà.
La visione di Leni è del tutto fedele all’opera originale, eccezion fatta per il finale, meno drammatico e con un’apertura maggiore alla speranza. La sua vita è travagliata, spezzata in due come il volto. Da una parte un perenne sorriso, dall’altra una perenne tristezza. Un riso che suscita ilarità, soprattutto agli occhi dell’aristocrazia, contro cui si scaglia e che, pur appartenendovi, decide di ripudiare in nome di una vita infame. Ciò che di quest’opera colpisce sono in primis le atmosfere tanto tetre da aver influenzato il genere horror più che quello drammatico. Innumerevoli sono le citazioni che nel corso dei decenni quest’opera ha ricevuto, al di là del generale influsso che gli si può attribuire più o meno inconsciamente. Non c’è attore, regista o sceneggiatore che non ne sia in qualche modo debitore. Ma è un demerito questo? È qualcosa da occultare? No, affatto. Come dicevamo dal nulla nulla si crea. Anche l’immenso Hugo ha avuto due millenni di storia a cui attingere per la creazione del suo personaggio. Siamo al cospetto di una figura ancestrale, fissata nella nostra cultura da tempo immemorabile. Possedere delle radici profonde e ben radicate non è quindi sinonimo di debolezza, ma al contrario è l’unica cosa che permette ad un personaggio di crescere e svettare.