Un cantante musicista, un politico, una guida spirituale? E poi perché quegli strani capelli?
È difficile immaginare oggi una cosa simile, certo per uno che di mestiere fa la star internazionale le grandi folle e la fama mondiale sono parte del gioco, ma vedere quello che sto vedendo oggi, 21 maggio 1981 a Kingston in Giamaica, ha dell’incredibile.
Bob Marley non è un cantante per queste persone, è qualcosa di più: la voce degli ultimi, un messaggio di speranza. É la redenzione. Un melanoma se l’è portato via a soli 36 anni.
Quelli di oggi non sono funerali normali, sono funerali di Stato con 12.000 persone stipate alla Kingston National Arena e altre 10.000 assiepate fuori. Il corteo che segue la salma nell’ultimo viaggio verso Nine Mile, suo villaggio natale, è seguito da centinaia di macchine. Mentre la bara viene sistemata all’interno del mausoleo le voci che si levano stanno urlando “Onoratelo, pregatelo!”
La storia di Robert Nesta Marley è intrecciata a doppio filo con quella della Giamaica degli anni ’60 e ’70, tanto che la sua intera produzione musicale, senza un minimo di conoscenza di quel contesto perde completamente di senso. Si, anche perchè forse mai come nel caso di Bob la musica è solo una parte del tutto, probabilmente neppure la più importante. O meglio, se pensiamo solo alla musica, il grande merito di Marley è stata l‘esportazione dalla Giamaica un genere nuovo per la platea mondiale della pop music e che avrà un impatto dirompente: il reggae.
Il reggae, quella particolare musica che nella pulsazione ritmica capovolge gli accenti tradizionali trasformando quelli forti in deboli e viceversa, si presenta come una rivincita degli ultimi nata qui negli anni ’60, proprio nei sobborghi di Kingston. Deriva dallo Ska, un tipo di musica con accenti simili, ma molto più veloce. “Siamo ai Caraibi, amico, noi amiamo la danza! Ma a ballare troppo e troppo veloce si suda molto qui, sai? Qualcuno pensò bene di rallentare quelle danze. È così che è nato.”
Incredibile, dovevo venire ai funerali di Bob Marley, per scoprire che nel ’66 ci fu un caldo da record, la gente sudava troppo a ballare Ska e da lì nasce il reggae! Leggende, ovvio, ma si sa che anche i miti contengono la loro dose di verità.
Al ritmo ipnotico della musica Bob aveva affidato però un messaggio universale e questo ha a che fare con la particolare religione rastafariana: sicurezza collettiva, autodeterminazione dei popoli, uguaglianza di diritti, ripudio della guerra. Ma soprattutto i rastafariani si battono per la restituzione dell’Africa agli africani come riparazione agli sfruttamenti e alle aggressioni subite per secoli dal Continente Nero. Osservano il decalogo di Mosè e seguono l’insegnamento dell’amore di Cristo, con tanto di rivelazione biblica e guida spirituale dell’imperatore etiope Hailè Selassiè (incoronato nel 1930), figura divina e diretto discendente del re Salomone e della regina di Saba.
Anche i classici capelli “rasta” altro non sono che una prescrizione biblica, il nazireato, che consacra il capo dei fedeli che dunque si astengono da tagli o pettinature. I lunghi ricci intrecciati in grossi nodi sono un simbolo di purezza, lo stesso voto che fatto nella Bibbia da Sansone, che nei capelli aveva la radice delle sue virtù.
Fare un giretto – grazie alla mia fida Macchina del Tempo – nel quartiere di Trenchtown una quindicina di anni prima dei funerali, dunque a metà degli anni ’60, mostra come tutto quello di cui ho parlato fino ad ora abbia la forza di un fiore cresciuto sull’asfalto. A dirla tutta, la parola quartiere è un eufemismo: il sobborgo somiglia molto ad una favela ed è un posto molto pericoloso, teatro abituale degli scontri armati tra sostenitori delle due fazioni politiche contrapposte, il PNP e il JLP. Risse, sparatorie, estorsioni, narcotraffico. L’attività più diffusa è il crimine e il giovane Bob Marley non se la sta passando bene qui. Sua madre è una giamaicana nera e il suo padre inglese lo ha abbandonato prima ancora di vederlo nascere. Bob è troppo bianco per essere un nero e troppo nero per essere un bianco, per questo subisce il razzismo dell’uno e dell’altro gruppo. Ha dovuto imparare a difendersi e lo fa bene, assestando pugni micidiali che gli hanno fatto guadagnare il soprannome di Tuff Gong.
Nel 1967, solo ventiduenne, Bob ha già l’esperienza di un adulto. É nato a Nine Mile, un villaggio in mezzo alla giungla dove non ha avuto nulla, se non il contatto con la natura e tutto un patrimonio di cultura animista di tipo quasi tribale. Con la mamma poi, si è spostato qui in città, dove tra una rissa e l’altra si è appassionato alla musica.
Un ultimo elemento per cercare di scavare nel mondo di Bob Marley è la sua parentesi di lavoro americano come saldatore alla Chrysler di Wilmington. L’America dei ’60 è un posto che nei nostri viaggi stiamo imparando a conoscere e al di là della rigida separazione tra bianchi e neri e delle condizioni di lavoro totalmente impari, dobbiamo sapere che il Delaware di quel periodo è un posticino simpaticamente ricco di membri del Ku Klux Klan.
Bene, sapete tutti che Bob Marley diventerà famoso da qui a poco insieme alla sua band, i Wailers ; sapete anche che molte volte la musica “popular” e i temi sociali si sono incontrati, con Bob Dylan, Bruce Springsteen o John Lennon, per esempio.
Eppure era importante passare da qui, perchè Bob Marley non ha solo cantato dell’ingiustizia, dell’oppressione e della violenza. Ha anche vissuto e subito tutto ciò, la sua discografia è un diario autentico di vita tra gli ultimi e per gli ultimi. Forse è per questo che anche a quasi 40 anni dalla sua morte in Giamaica è ricordato quasi alla stregua di un santo, una sorta di patrono dell’isola.
Per noi Bob è e resterà il profeta del reggae e la prima grande star che noi occidentali abbiamo visto arrivare, a piedi scalzi, dal Terzo Mondo.