Il film ha ottenuto 6 candidature e vinto 3 Premi Oscar. È stato premiato al Festival di Cannes. Poi, 3 candidature e vinto un premio ai Golden Globes. Inoltre 4 candidature e vinto 2 BAFTA. Ancora, 1 candidatura a Cesar. Cosa? Si, dimenticavo: 7 candidature e vinto 2 Critics Choice Award, ha vinto un premio ai SAG Awards. Ha vinto un premio ai Spirit Awards. Ha vinto un premio ai Writers Guild Awards. Infine? 1 candidatura a Directors Guild, 1 candidatura a Producers Guild. Il film è stato premiato a AFI Awards, ha vinto un premio ai ADG Awards, 4 candidature e vinto 2 NSFC Awards.
Insomma, un film che, girando in tondo un po’ tutto il mondo, è piaciuto giusto un filo. E non potevo non recensirlo.
Trama piuttosto semplice, in realtà. Ma, a volte, come in questo caso, è proprio questa la forza di alcune pellicole.
Ki-woo vive in un modesto appartamento sotto il livello della strada. La già non facile condizione generale viene assai gravata dalla contestuale compresenza dei genitori, Ki-taek e Chung-sook, e della sorella Ki-jung.
Tuttavia, il tepore familiare funge da collante, e agisce da balsamo rispetto a un’esistenza alquanto anonima ma onesta. Tutti loro si arrabattano nello svolgere piccoli lavoretti utili a poter mettere il piatto a tavolo. Il tutto viene svolto senza alcun calcolo, senza alcuna programmazione, per tirare a campare in maniera decorosa.
Poi arriva l’improvviso cambio di rotta. Un amico di Ki-woo prospetta al ragazzo la possibilità di sostituirlo come insegnante d’inglese per la pargola di una famiglia benestante: trattasi di un’occupazione molto ben retribuita, in aggiunta alla non trascurabile circostanza che il focolare domestico di “Mr Park”, dirigente di un’azienda informatica, è una vera e propria meraviglia.
Ki-woo è davvero felice. E discorrendo con la signora Park dei disegni del figlio più piccolo, fiuta qualcosa da sfruttare senza alcuna esitazione. Escogita quindi anche un’identità parallela assunta dalla sorella Ki-jung, che fungerà da docente di educazione artistica. In tal modo, approfondirà ancor più i suoi curiosi tentacoli in seno all’esistenza di coloro che gli erano ignoti fino a poco tempo prima.
Bong Joon-ho fonda la sua carriera sull’alterazione del fantastico, con affreschi plastici di larga scala come ‘The Host’, ‘Snowpiercer’ e il recente ‘Okja’. A dispetto del titolo, tuttavia, in Parasite non albergano strane creature, né immersioni a capo fitto nel mondo del soprannaturale: ci sono solo due famiglie e due dimore, oltre alla rapace analisi di una disuguaglianza classista, che lui ritiene afferibile anche alla realtà coreana, similarmente a contesti assai extra-asiatici.
Le due case – letteralmente – raccontano la storia, con gli eventi sempre più tesi e rocamboleschi che vengono incorniciati da due finestre, ognuna con quattro pannelli. La prima è una minuscola apertura ribassata su un vicolo, che lascia entrare rumori, disturbi e disinfestazioni nel salotto dei protagonisti, già impegnati a contorcersi nelle poche stanze disponibili alla ricerca di una connessione WiFi priva di password nei paraggi. La seconda è una gigantesca vetrata a parete nella villa dei Park, che “focalizza” l’ampio giardino teatro di un climax a orologeria, e dissimula la potenzialità vessatoria del pervicace sguardo di terzi, magari avvinti da attacchi di invidia e dal desiderio di improvvidi approfondimenti.
In un’epoca di erosioni sociali di sempre più difficile ricomposizione, ‘Parasite’ si propone come una godibile estrinsecazione del suo tempo, che Bong Joon-ho ha il merito di re-incasellare nell’ambito domestico, dopo aver raggiunto il limite dello psichedelico nella folle corsa del treno fra le nevi perenni in Snowpiercer.
Alla fotografia, vivida e fluida nello sfruttare i volumi architettonici, c’è Hong Kyung-po, reduce dal fenomenale lavoro su ‘Burning’, che della lotta di classe faceva uno sfondo elegante laddove ‘Parasite’ la erge ad allegoria principale. E come studio delle idiosincrasie familiari, Bong Joon-ho riesce a entrare nel pieno territorio del primo Lanthimos e dell’ultimo Peele.
Nonostante la pellicola trasmigri con una certa celerità bypassando vari genori e tipologie (in realtà una costate per le produzioni di Bong Joon-ho) – ampi pezzi “comedy” si vanno ad alternare con istanti di pura tensione ed ancor più autentico dramma – , i Park non vengono rappresentati come una sin troppo semplificata macchietta collettiva, cioè piena di soldi ma parimenti stupida (vari refrain di stampo d’oltreocano, oltre all’algido pensiero ricorrente di una linea di demarcazione che non deve essere scavalcata).
Del pari, Ki-taek (interpretato da Song Kang-ho) e il suo nucleo familiare fluttuano uterini oscillano tra la versione beta di stampo coreano degli ‘Shoplifters’ di Kore-eda ed un a dir poco obliviante catapultarsi verso l’abisso della perenne lusinga di “andare oltre”.
Bong Joon-ho ritorna alla sua forma migliore, con un’incisività che “Okja” non ostentava, in uno a una chiarezza d’intenti che riporta alla memoria i suoi lavori d’esordio.
Il denaro sa rimuovere ogni incrostazione e ogni remora, sembra ammonire Chung-sook. Il concetto di “brava persona” è di difficile applicazione, laddove l’essere umano può diventare qualcosa di molto lontano dall’irreprensibile laddove sottoposto a lungo a una succosa tentazione, specie se la sorte non gli ha riservato un posto nel gotha degli abbienti. Quindi, cavalcare un maroso improvviso può rappresentare una doverosa via d’uscita dall’anonimato.
Simpatico poi il non infrequente richiamo agli spettri del reame di casa propria – anche noi, a queste latitudini, ne sappiamo qualcosa – specie quando fanno irruzione dalla polvere delle soffitte, squarciando il velo della noia e donando la fantasia di una vita più agiata, preponderante addirittura rispetto allo spavento che arrecherebbero in un mondo normale.
Pluripremiato, premetto che, in ogni modo, non è film che potrà piacere a tutti, e qualcuno potrà tranquillamente rappresentare che non si tratta di nulla di “epico” ed irripetibile.
Resta tuttavia una realizzazione da vedere.
Fatevi tentare anche voi.