La nostra società è veloce, velocissima ed ogni giorno schiaccia sempre più il piede sull’acceleratore; ormai siamo abituati ad ottenere tutto e ad ottenerlo nei tempi più rapidi possibili. Desideriamo comprare un nuovo telefono? Un libro? Un Hamburger o quant’altro? Basta cliccare sul nostro smartphone ed ecco che ci verrà recapitato direttamente a casa nostra e senza alcuno sforzo. Purtroppo, però non tutto può essere così veloce, vi sono situazioni che meritano i loro tempi, poiché è necessaria una lunga e meditata maturazione prima che possano concretizzarsi. Questa condizione è assolutamente valida per l’immissione di una nuova farmacologica.
Siamo tutti spaventati ed ormai esausti dal COVID-19 e non vediamo l’ora che quest’incubo finisca, ma è chiaro che la pandemia deve fare il suo decorso naturale e che la possibilità di sviluppare terapie realmente efficaci richieda dei tempi ben programmati.
Se ad esempio, pensiamo alle cure per il virus dell’epatite C, ci sono voluti più di 20 anni prima che uscissero delle terapie veramente efficaci nella sua eradicazione ed assolutamente sicure per l’uomo. È chiaro che riuscire a scoprire una cura per il COVID-19 richiede tempi lunghi, nonostante gli innumerevoli sforzi che stanno compiendo i ricercatori ed i sanitari.
Quello che attualmente si sta tentando di fare è vedere se farmaci già esistenti ed utilizzati nella cura di virus simili a quello del SARS-CoV-2 possano essere efficaci nella sua eradicazione. Un ultimo esempio ci è dato dal Remdesivir, questa molecola viene chiamata “analogo nucleotidico” ed agisce “fingendosi” un pezzettino di materiale genetico del virus da distruggere impedendone così la corretta replicazione e con conseguente eliminazione del virus stesso. È chiaro che per agire in modo efficace deve simulare in modo più simile possibile il materiale genetico del nemico da sconfiggere; il Remedesivir è nato con l’obiettivo di contrastare il virus Ebola e per tale ragione è stato “creato” per simulare quel frammento genetico, si è però visto che in parte aveva anche una buona azione su altri tipi di virus e fra questi anche quelli a RNA cioè virus simili a quello del SARS-CoV-2. È chiaro però che essendo nato per contrastare uno specifico virus è difficile che possa agire in modo così efficace anche su altre specie virali; è come voler aprire una porta di casa, non con la chiave adatta, ma con cacciavite e martello; con tali mezzi, potremmo anche riuscire nel nostro scopo, ma con molta più fatica e meno efficacia.
Inoltre per valutare l’efficacia della terapia è necessario condurre diversi studi in modo sistematico ed essere certi dell’analisi dei risultati ed evitare che vi siano fattori che interferiscano con la corretta valutazione dei dati statistici. È quindi ovvio che la fretta di ottenere una risposta non aiuta nella corretta valutazione, anzi potrebbe inficiare in modo negativo il dato. In questa fase così caotica, nella quale il personale sanitario è impegnato a contrastare l’ondata della pandemia con i pochi mezzi a disposizione, non è facile condurre uno studio oggettivo e con metodo scientifico adeguato. Ad esempio, non basta semplicemente somministrare il farmaco a qualsiasi paziente infetto e vedere se guarisce, vi sono numerose variabili che determinano la risposta, ad esempio: quando è utile somministrarlo, nella fase iniziale della malattia, nella fase avanzata? È utile nei pazienti che presentino già grave compromissione respiratoria? Vi sono variabili come l’età o altre patologie che inficino sulla risposta terapeutica? La cosomministrazione di altri farmaci varia l’efficacia della risposta terapeutica? Queste sono solo una piccolissima parte di variabili da considerare.
Diversi gruppi di esperti stanno valutando tutti questi dati e lo stanno facendo con grandi sforzi ed in tempi brevi, cercando di ottenere delle risposte valide. Quest’analisi non è così semplice, infatti mentre alcune revisioni sembrano essere favorevoli all’uso del Remdesivir (The New England Journal of Medicine 2020 Nov 5), in particolar modo nel ridurre il tempo di ospedalizzazione e la guarigione dei pazienti affetti da COVID-19, dati più recenti non sembrano concordare con la reale efficacia di tale terapia. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha infatti pubblicato sulla rivista “The British Medical Journal”, un’ulteriore analisi di dati che non dimostrerebbe reali benefici della terapia con Remdesivir nei pazienti ospedalizzati per COVID-19, a prescindere dalla gravità della malattia, nel migliorare la sopravvivenza o la necessità di supporto di ossigeno. Anche l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) che ha autorizzato l’uso del Remdesvir in alcune categorie di pazienti (quelle nei quali ha dimostrato maggiore efficacia), pochi giorni orsono (20 novembre), ha pubblicato un comunicato nel quale dichiara che “La Commissione Tecnico Scientifica, riunita in seduta permanente, sta rivalutando il ruolo del Remdesivir nella terapia contro Covid-19 e formulerà nuove raccomandazioni e/o disposizioni”.
In conclusione, la ricerca è qualcosa che va condotta con criterio ed in modo oggettivo, un determinato studio non può essere influenzato dalla speranza che il farmaco agisca o dai puri fini economici; d’altro canto però la speranza di scoprire una terapia efficace non deve spegnersi anzi deve spingerci nel continuare a cercare e a farlo nel modo giusto