Come al solito, anche questa volta, a promozionare in maniera efficace il furbissimo Checco Zalone, ci hanno pensato più gli intellettualoidi bipartisan che il suo entourage.
L’escamotage? Un paio di canzoncine innocue nella sostanza, apparentemente sbilanciate dall’uno o dall’altro lato, a seconda della strofa.
Il risultato? Tanto rumore per nulla, così come fragoroso è, anche in questo caso, il tintinnio dell’incasso, già proiettato verso un nuovo record “ogni epoca”.
Checco Zalone, alias Luca Medici, è attore, e coautore della sceneggiatura (con Paolo Virzì, accantonata la joint-venture con Gennaro Nunziante), e soprattutto. Quest’ultimo aspetto è a dir poco tangibile. La conduzione delle sequenze è frizzante e come al solito esuberante, tutta imperniata intorno al suo talento comico, quasi sempre prono a schernire la vicenda di turno ma anche – e non è aspetto da poco – a offrire bivi interpretativi allo spettatore.
Meno rilevante appare il contributo di Virzì, incalzato dalla vis narrativa di Checco. Se proprio c’è da fare un appunto è legato alla parziale lentezza della prima sezione del film, resa meno scorrevole dalla continua ingerenza della voce fuori campo, forse eccessivamente incline a sostituirsi a quegli sviluppi fattuali della trama che meglio andrebbero a esplicarsi attraverso sequenze visuali un po’ soffocate da questo narrato “esterno”. Poi, come un diesel, la pellicola inizia a carburare, e per gli amanti di Zalone inizia la vera pacchia.
Siamo a Spinazzola, fulcro di una zona assai caratteristica. Le Murge pugliesi.
Primo richiamo alla realtà dei giorni nostri è legato al rifiuto di Checco di conseguire il reddito di cittadinanza, optando per l’apertura di una propria attività. L’attivazione di un sushi restaurant, scontato il fervore iniziale e la voglia di fare, purtroppo non gli dà però quanto sperava. L’attività fallisce in poco tempo ed ecco manifestarsi un nugolo di agguerriti creditori, in uno alla classica mannaia del fisco che reclama egualmente quanto dovuto.
Checco scappa in Africa (“là dove è possibile continuare a sognare”): si inventa cameriere in un resort extralusso e ivi conosce Oumar, un cameriere che sogna di diventare regista, grazie anche all’afflato emotivo che prova per quella visione dell’Italia acquisita attraverso il cinema di Pasolini.
Ma, all’improvviso, in Africa scoppia la guerra e i due sono costretti a emigrare; il paradosso è che Checco non conta di tornare in Italia, quanto di raggiungere uno di quei Paesi europei in cui “le tasse e la burocrazia sono meno pressanti che nel Bel Paese”.
Con loro faranno squadra il piccolo Doudou (“come il cane di Berlusconi”) e la sensuale Idjaba, al fine di intraprendere e portare a termine il “grande viaggio da clandestini”.
Zalone ne ha per tutti e non risparmia nessuno, seminando fendenti verso chiunque sia funzionale alle fondamenta del narrato.
‘Tolo tolo’ – che significa “Solo solo” è il film del pragmatico antieroe che attraversa a piedi, su un pullman saturo di umani come su una carretta del mare, avversando politici incapaci dalle vertiginose carriere, gli stessi migranti improvvidi amanti delle griffe, oltre che i nostalgici dei tempi del Duce (perché “il fascismo ce l’abbiamo tutti dentro, pronto a riemergere, come la candida”) e buonisti benevoli verso una “rimescolanza” etnica.
Nella sua rappresentazione, l’italico stivale un Paese “che ci perseguita”, pur rimarcando le meschinità e le ipocrisie del popolo stesso, troppo accorto alla “tutela etica” dei propri pregiudizi e al foraggiamento continuo dei propri narcisistici egoismi.
È nella parte finale che Zalone mena il vero colpo di scimitarra, grazie a una canzoncina che prende le sue mosse melodiche da ben noti refrain. La famosa canzonetta su cui in tanti si sono dimenati, tentando di decriptare qualcosa che, a mio modesto e umile parere, non vuole essere altro che una presa in giro generale, a 360°, e senza isterie di sorta.
I film di Checco Zalone sono la cartina di tornasole del proprio modo di vedere le cose, perennemente ostentata alla visione e alla critica dello spettatore, senza restrizioni, senza false ipocrisie, abile nel creare un punto di tangenza fra l’opinione pubblica e le utopie e i nichilismi delle classi dirigenti, nello spirito di evidenziarne l’inconsistenza delle pantomime spesso inscenate, a tutto vantaggio non della collettività, quanto del perseguimento di ben altri profitti e utilità di carattere privato e privatistico.
Anche la numerosità della rappresentanza africana nel cast è di certo voluta, volendo evidentemente creare il parossismo tipico di una società dove tutti sono idealmente al di qua di un confine mai del tutto identificabile, dove le categorie che ne identificano il carattere di demarcazione non sono chiare e per le quali il concetto di migrante diventa quindi un discrimine molto relativo.
Una semplificazione che, per quanto caciarona e grottesca, trova invece la sua ragion d’essere nell’attualità, non sempre riprodotta in maniera fedele dai media, laddove sovente mascherata a uso e consumo dei patronati del momento.Triste, ma ne va preso atto.
Un film dove potrete farvi due scanzonate risate.
Di certo, a valle della sua visione, non necessariamente sarete pronti alla realtà dei nostri giorni.
Ma, magari, riuscirete a essere in grado di sorridere di taluni aspetti, ponendo maggiormente il focus su quelli veramente pregnanti.
Non sarà né merito né colpa di Zalone.
Che ha il grande merito di dar luogo a un cinema leggero, senza etichette e proclami.
Ma non per questo di secondo piano.