Il genere Horror è, come universalmente riconosciuto e già da tempo, incappato in una fase di acuta saturazione.
Sempre l’Horror è, quindi, fra quelle categorie cinematografiche che più risentono dell’usura dei tempi, legati a una quasi del tutto inevitabile ripetitività e, in particolar modo, ai riverberi dell’abuso smodato di “Computer-Grafica” (lo so, lo so: anche questa dicitura è ormai desueta); la quale, grossomodo, accomuna un po’ tutte le opere analoghe dal punto di vista visuale. Benché potendosi giovare, oramai, di tecniche ormai così consolidate da esser sempre in grado di generare potenti dosi di fascinazione sensoriale (in ogni modo attive solo nel breve termine della durata filmica), oltre essere di qualità mediamente alta.
Nell’ultimo decennio, l’unica ventata di novità è stata portata dall’avvento di una gragnuola di opere realizzate “in soggettiva” e/o con l’ausilio di sistemi video semoventi che fornivano la percezione di quella “amatorialità” maggiormente in grado di avvicinare la percezione dello spettatore all’illusoria convinzione di osservare un evento reale. O, quantomeno, realistico.
A Quiet Place, in tal senso e almeno sulle prime, sembra quindi riportare leggermente indietro le lancette dell’offerta audio-visiva legata all’orrorifico.
Tuttavia, fa da doverosa premessa la considerazione che questo, al contrario (e nonostante il ricorso ad una modalità di ripresa “classica”), riesce ugualmente a risultare come uno dei film di genere più stranianti degli ultimi anni.
Dove ci troviamo? In un luogo con la densità di popolazione di un fienile. Tuttavia, scarsamente frequentato. Di certo non per limiti intrinseci; quanto di una singolare circostanza, che ormai lega a doppio filo ogni luogo del Pianeta Terra.
Ci si ritrova fiondati in un contesto apparentemente semplice, tuttavia tale da avvilupparti l’inconscio sin dal principio. Oltre che portati a imbattersi frontalmente nella fallace temerarietà di un concept primitivo; peraltro adattato a una condizione di vita che può dare luogo a mille e una interpretazioni, invero tale da consentire a ognuno di farvi dimorare la propria (personalissima) fucina di metafore e accostamenti. Letterari e non. Relativamente, e va detto, a un qualsiasi momento del proiettato.
Se uno dei pregi di una pellicola dev’essere quello di condurti in prossimità del suo nocciolo senza soluzione di continuità – e sin dall’inizio – A Quiet Place possiede appieno questa dote.
Bene, entriamo nel vivo.
Iniziamo a parlare proprio del titolo.
Già qui si rovesciano le carte dal tavolo.
“Luogo tranquillo” un corno.
Qualsiasi spettatore, indipendentemente dal livello d’attenzione prestato, se ne accorge entro e non oltre il primo minuto di visione.
La famiglia Abbott, ormai solita a non usare più alcun tipo di calzature, è costretta al silenzio per non essere scoperta da un essere scorbutico. Una presenza ultraterrena, che viene da chissà dove, che osserva la loro fattoria come il celebre JigSaw dell’omonima serie. Scruta, senza essere visto. L’orrenda sensazione di avere il suo fiato sul collo, in uno al fatto che possa spuntare fuori da un momento all’altro e decretare una morte triste e violenta.
Si parte da un supermercato abbandonato, dove questo coraggioso nucleo umano si ferma per una breve sosta, prima di incamminarsi lungo la via del ritorno a casa, lontano dalla città. Ed è a causa di una grave digressione rispetto a un codice del silenzio che necessita di una a dir poco rigorosa adozione a comportare la prima cesura narrativa, dando luogo a un dramma evitabile quanto disperante.
In quella zona sono rimasti in pochissimi, ovvero quelli che si sono salvati – almeno per il momento – dalla furia ceca di creature orripilanti; costretti al massimo sforzo per non produrre alcun tipo di rumore, pena diventar preda in un amen di coloro che hanno invaso il nostro pianeta.
Per 472 giorni, gli Abbott riescono a sopravvivere, grazie a un consolidato utilizzo del linguaggio dei segni, a loro ben noto laddove la figlia maggiore è sordomuta. Ma sta per arrivare una prova di livello proibitivo. Un altro pargolo sta per venire al mondo. E riuscire a non fare rumore assumerà i connotati di un’impresa titanica.
Il regista, John Krasinski, nella realtà vero marito di una sempre più poliedrica Emily Blunt (Ne è passato di tempo da Il Diavolo Veste Prada), narra di famiglia sotto la prospettiva del marito/genitore, dopo esser stato figlio di una madre malata nella commedia “The Hollars”.
Nel film, com’è ovvio, i livelli di cautela da assumere per riuscire a proteggere la famiglia raggiungono valori sommitali, fino a sconfinare nell’inapplicabile. Se non, addirittura, nell’inverosimile.
Ma il risultato è notevole. Ne vien fuori un narrato teso come una corda di violino. E al contempo, ben disposto ad attagliarsi con le unghie rispetto ad un terreno primitivo quanto articolato; nel quale, quel che usualmente andrebbe a tradursi in urla e strepiti di terrore, riesce invece a concretarsi in stentoree quanto efficaci sequenze, basate su densi scambi di sguardi fra i protagonisti.
A far da mattatore, tuttavia – con una spruzzata di serena amplificazione in concorrenza di processo con l’accresciuto livello di difficoltà nel quale i protagonisti devono giocoforza barcamenarsi per riuscire a sopravvivere –, resta il tema della gestione filiale; e, più in generale, quello della conduzione “a regime” di quello scrigno prezioso che resta la Famiglia.
In chiusura, un messaggio che mi sento in dovere di condividere.
Il Silenzio, nella sua accezione più nobile e prudente, sa – e può – esser saggezza.
Capace di arrecare maggior fragore rispetto a uno sterile e disarticolato turbinio di parole.
Infine, trovo pure divertente farvi una confidenza.
Vi spaventerete di quanto, durante la visione della pellicola, riuscirete a immedesimarvi nei protagonisti. Come loro, vi ritroverete a tremare al minimo rumore.
Personalmente, sono saltato per aria in corrispondenza del trillo del mio cellulare; reo, benché incolpevole, d’aver inopportunamente squarciato il silenzio assordante nel quale mi ritrovavo piacevolmente immerso.
E, cosa più divertente, capirete che ben presto vi si sarà intorpidita (quasi sopita) l’usuale favella.
Ma non dovrete preoccuparvi.
Vorrà dire che state solo partecipando attivamente alla storia.
E, ve lo dico con genuina sincerità, ne vale davvero la pena.