“Il ricordo della tragedia di Marcinelle rimane parte indelebile della memoria collettiva del nostro Paese e dei Paesi che ne furono colpiti. Il sacrificio dei duecentosessantadue lavoratori, tra i quali centotrentasei connazionali, è destinato a richiamare alla memoria di tutti noi il valore delle sofferenze e del coraggio dei migranti in terra straniera alla ricerca di un futuro migliore per le loro famiglie, da costruire con il loro lavoro.”
Con queste parole, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha deciso di ricordare il grave disastro di Marcinelle. Era proprio l’8 agosto del 1956 quando, purtroppo, 262 uomini, tra cui ben 136 italiani, morirono intrappolati nella miniera Bois du Cazier – oggi patrimonio dell’UNESCO – nei pressi Marcinelle, in Belgio. Si trattò, senza dubbio, di una delle più grandi tragedie del lavoro della storia, il terzo per numero di vittime tra gli immigrati italiani all’estero dopo i disastri di Monongah e di Dawson. I minatori in attività, in totale, erano 274 e, dunque, solo in 12 uscirono vivi da quell’inferno. Oltre ai 136 italiani, le altre vittime furono 95 belgi, 8 polacchi, 6 greci, 5 tedeschi, 5 francesi, 3 ungheresi, 1 inglese, 1 olandese, 1 russo e 1 ucraino. Causa dell’incidente fu un malinteso sui tempi di avvio degli ascensori. Si disse che all’origine del disastro fu un’incomprensione tra i minatori, che dal fondo del pozzo caricavano sul montacarichi i vagoncini con il carbone, e i manovratori in superficie. In realtà, invece, il montacarichi, avviato al momento sbagliato, urtò contro una trave d’acciaio, tranciando un cavo dell’alta tensione, una conduttura dell’olio e un tubo dell’aria compressa. Erano le 8 e 10 quando le scintille causate dal corto circuito fecero incendiare 800 litri di olio in polvere e le strutture in legno del pozzo. L’incendio si estese alle gallerie superiori, mentre sotto, a 1. 035 metri sottoterra, i minatori venivano soffocati dal fumo.
C’è da dire che la tragedia della miniera di carbone Bois du Cazier fu soprattutto una tragedia degli italiani immigrati in Belgio nel dopoguerra. Tra il 1946 e il 1956, infatti, più di 140mila nostri concittadini varcarono le Alpi per andare a lavorare nelle miniere di carbone della Vallonia. “Condizioni particolarmente vantaggiose vi sono offerte per il lavoro sotterraneo nelle miniere belghe” questa frase campeggiava nei manifesti rosa affissi in ogni angolo dell’Italia del dopoguerra, dai circoli degli zolfatai, alle chiese rimaste in piedi dopo le distruzioni del conflitto. Veniva venduto come il lavoro della libertà economica, della stabilità, tanto che molti furono affascinati da quegli annunci e decisero di preparare la valigia di cartone e di prendere il treno con il solo biglietto di andata nelle affollate stazioni del Sud. Quello che si celava però dietro al protocollo italo-belga, firmato nel 1946 dai due paesi, era molto più complesso: in cambio di 50 mila emigrati impiegati nelle miniere, l’Italia avrebbe ricevuto carbone, barattato appunto con la partenza di centinaia di migliaia di persone e con città intere del Meridione svuotate. Si trattava di un patto che sarebbe durato 10 anni.
Sono trascorsi 65 anni da allora ma il messaggio lasciato dalle vittime di Marcinelle è ancora di grande attualità nel percorso verso la cultura di un lavoro dignitoso, sicuro, regolare e correttamente retribuito. Ce lo ricordano, del resto, le vittime del lavoro di questi ultimi giorni e le impietose statistiche dei primi sei mesi del 2021 in Italia con ben 538 “morti bianche”. Sì, ancora oggi, si muore per lavoro.