Ammetto che ho un debole per le trasposizioni da graphic novel, laddove mi ritrovo in palese conflitto d’interesse. Mondi di fantasia, artificiali ma quasi mai artificiosi, talvolta assai più efficaci della narrativa pura per raccontare pezzi di realtà. È ciò che accade qui, in Alita – L’Angelo della Battaglia.
Tratto dal manga di culto di Yukito Kishiro, “Alita – Angelo della battaglia”, com’è ovvio qui riproposto in una versione semplificata della vasta trama dell’originale, racconta della ricerca di sé e della propria identità, in un mondo dove l’ambizione sociale resta forzosamente relegata nel limbo dell’imponderabile e dell’insuperabile, e dove si tende ad accettare che per soddisfare i propri desideri potrebbe essere necessario scendere nei maleodoranti gironi dell’inferno.
Ad Iron City, immaginifica città del 2500, vive il 99% della popolazione, la quale sbarca il lunario grazie a lavoretti di poco conto che giusto di un po’ distaccano la gente dalla povertà totale. Popolo che possiede un solo svago: lo spettacolo gladiatoriale del cosiddetto Motor Ball.
L’altro l’1% si presume viva in una sorta di inaccessibile paradiso chiamato Zalem. Tuttavia, a fronte di altri mondi distopici, dove le diverse genie e i ceti sociali sono separati da distanze abissali, il mondo di Alita (Rosa Salazar) è solare e vitale. Iron City è infatti un luogo immenso, con giornate piene di Sole e contornata da palazzi dai colori allegri, in linea con la goliardia di gran parte delle persone che vi risiedono, e che richiamano alla magnificenza di talune architetture centro-americane di parecchi secoli addietro.
Trecento anni dopo la “caduta”, in Iron City, nel 2563, Il dottor Dyson Ito (Christoph Waltz), una sorta di buon Geppetto del luogo, ripara cyborg nella propria “clinica-officina”. Dyson ha l’abitudine di andare sempre alla ricerca di nuovi pezzi da assemblare e riutilizzare nelle sue creazioni finchè un giorno, nel perlustrare la locale discarica in cerca di componenti – continuamente rifornita dai rifiuti che cascano dalla città sospesa in cielo di Zalem – vi rinviene la porzione mediana di una ragazza cyborg. Si ritrova di fronte a un conflitto interiore che supera in breve tempo: decide infatti di innestare questo pezzo nel corpo, mai utilizzato, che aveva preparato per sua figlia Alita.
La ragazza non ha memoria di sé, ma è un cyborg d’avanguardia, frutto di una tecnologia lontana nel tempo e improntata alla battaglia, di quelle all’ultimo sangue. È infatti combattendo che, pian piano, ne riaffiorano le memorie. L’apparato neuronale trova nuove praterie nelle quali inoltrarsi, e così decide di entrare tra i cacciatori di taglie della città – ad Iron City si aggira infatti una sorta di serial killer che ruba componenti meccaniche e che sarà uno degli avversari principali di Alita -, oltre che industriarsi personalmente nei truculenti tornei di Motorball.
L’immedesimazione con la realtà che la circonda come un ventaglio che le soffia contro sempre nuove emozioni, la porta addirittura a innamorarsi di un ragazzo umano. Che però desidera raggiungere Zalem. E questo non è positivo, laddove da tale luogo promana una forza sinistra che appare molto interessata ad Alita.
Villain d’eccezione, tal Vector (il Mahershala Ali di Green Book), nero, elegante e pieno di carisma; un tipo molto attivo, dal momento che sovrintende alle corse del motorball, oltre a coordinare i cacciatori di taglie. Come se non bastasse, sembra pure l’unico capace di poter consentire l’accesso a Zalem ai suoi adepti. Per questo lavora con lui la bellissima Chiren (la Jennifer Connelly di A Beatiful Mind, Ultimatum alla Terra e La Casa di Sabbia e di Nebbia), ex moglie di Ito e brillantissima scienziata. La quale, al pari del marito, arriva proprio da Zalem, luogo quasi proibito dal quale si può cadere ma dove, a parere di Ito, non si può più ritornare.
L’ambizione per la città sospesa, per una vita migliore, fa da impulso per le azioni di numerosi personaggi di Alita e ha esiti drammatici: Rodriguez, perseverando nel suo solito approccio, nemmeno troppo abile nei dialoghi, riproduce la violenza e il senso di tenebrosa tragedia dell’originale, con robot smembrati, protagonisti che perdono la vita e sogni infranti in abbondanza, con il risultato di dar luce a un film di fantascienza molto duro, dove paradossalmente la componente “romantica” prevale rispetto a quella che pertiene al “trans-umanesimo”. Alita è una specie di Frankenstein che sogna l’amore, pronta a dare – letteralmente – il cuore al proprio ragazzo. Difficile restare indifferenti a tanta passione, per quanto platonica.
La ricchezza e la varietà di scenografie e costumi rendono l’ambiente credibile e sfaccettato, dove oltre alla miseria della fatica e della povertà c’è spazio anche per il gioco, così come per il crimine notturno.
La gran quantità di personaggi e intrighi rendono il film narrativamente cospicuo ma non profondo.
Rosa Salazar se la cava, meno efficace risulta il suo partner, il giovane Keean Johnson, noto più che altro per la serie “Nashville”.
L’arco narrativo si dipana fra scene d’azione davvero grandiose, spesso distribuite in fasi notturne tra il motorball e i tetti di Iron City.
L’epilogo si apre infine su una sfida aperta, in attesa di possibili nuovi capitoli; tuttavia il regista non ci lascia una pellicola “irrisolta”, perché ogni personaggio, fra vari colpi di scena, ha compiuto un percorso di crescita, oltre che terminato il proprio ciclo di narrazione personale.