Farrokh Bulsara sa, sente che è fatto per la gloria. Nato a Zanzibar e allevato a Bombay in seno alla comunità “Parsi”, si ritrova a Londra con la famiglia, stirpe relativa a un funzionario indiano-britannico negli anni Quaranta. È detentore di un’estensione vocale fuori dal comune (quattro ottave) e mani capaci di tutto. Un talento assoluto, ma è l’unico a saperlo.
Sa che lo attende un destino fuori dalla norma, e attende, fiducioso. Ne è ignara invece la sua famiglia, abbarbicata intorno al rispetto delle proprie tradizioni nell’ambito dei sobborghi di una Londra uggiosa e che sembra poter offrire veramente poco ai “Paki” come lui.
Nelle pause del suo umile lavoro, Farrokh scrive musica e compone, segretamente, piccoli gioielli. Un incontro fortuito per strada persuade Brian May (chitarrista) e Roger Taylor (batterista) a ingaggiarlo per rimpiazzare il solista che li aveva appena piantati in asso; in poche battute, entrambi restano scioccati dalla potenza e dalla poliedricità della sua voce. E tutto ha inizio. Grazie all’accodamento di John Deacon (bassista), prende vita il mitico gruppo dei Queen, che lascerà un planetario segno indelebile nel rock and roll.
Il film di Bryan Singer, di certo godibile, è per lo più concentrato sulla rigorosa ricostruzione del cammino del gruppo, com’è ovvio ponendo l’accento su tutto quanto attiene a Freddie Mercury, leader indiscusso.
Era altresì chiaro che trovare un interprete, capace quantomeno di “ricordarne” anche solo vagamente la grandezza, costituisse impresa ardua. Anzi, impossibile. In questo, occorre dare atto che Rami Malek (visto in Twilight e nell’intera trilogia di Una Notte al Museo), nonostante una protesi dentaria eccessiva e una strutturazione interpretativa basata prevalentemente sulla sua capacità di adeguare il labiale al playback, necessario per fornire adeguato tributo alla grandezza di Mercury, se la cava.
Ovvio che, per riproporne il carisma, la capacità dell’originale di saper essere pianista, chitarrista, compositore, tenore lirico, designer, atleta, artista capace di ogni record di vendita e uomo-orchestra, occorre che lo spettatore lavori, e molto, di immaginazione propria.
La pellicola – fortemente voluta e tenuta sotto costante osservazione in termini di sceneggiatura dai restanti membri dei Queen – premi conseguiti a parte, resta un buon biopic. Che però sconta la necessità di dover sfilare dal diario dei ricordi, onde poterne riproporre al pubblico una porzione “significativa”, ricostruzioni assai sintetiche dei numerosi mega eventi che hanno riguardato il gruppo, finendo talvolta per ridurne l’eco e annacquarne la singolarità.
Nemmeno si sfugge poi alla necessità di arrotarsi intorno al solito canovaccio che di solito pertiene alle narrazioni delle vite vissute dalle più grandi rockstar: infanzia difficile o intessuta di ristrettezze economiche, l’adolescenza da incompreso, il trauma psicologico del caso di specie, l’ascesa al successo pagata con la sonante moneta del flagello di turno buono a comprimerne la capacità senziente, il declino, la malattia e la morte.
Tuttavia, la particolarità del film è uscirne comunque bene, a fronte di uno schema consolidato e pur dal sapore del già visto. L’aura di Freddie Mercury è troppo forte, e sovrasta la stessa narrazione delle sue memorie, alimentando l’ottundimento positivo della visione. L’interesse dello spettatore resta acceso, pur a fronte di una serie di sequenze improvvisate e probabilmente anche infedeli rispetto alla prepotenza evocativa che attiene al reale vissuto dell’artista, del quale anche (se non soprattutto) gli eccessi hanno il sapore di leggenda.
Tuttavia, e va detto, sembra di assistere a un costante scroll di fotogrammi della vita di Mercury – andatosene via una mattina di novembre a quarantacinque anni, alla fine di un oblio vissuto con estrema discrezione -, forse fin troppo disinnescati nel loro naturale esondare ben oltre i limiti della normalità, ciò costituendo forse il principale limite del film stesso e fonte di un malcelato fastidio. Come a subodorare, specie nella seconda metà, un eccessivo preservarne la memoria, esponendosi a facili accuse di aver approntato un evitabile battage di semplificazione. Anche la riproduzione del mitico concerto plurimo dell’85 (Live Aid), che trovò forse la sua apoteosi in quel di Wembley, appare connotata da una postura asettica e scevra di molti particolari; come se si fosse voluto evitare di offendere la memoria di chi in quei contesti c’è stato per davvero e poteva forse notare, non senza una punta di dispiacere, la differenza di calore e di atmosfere della riproduzione cinematografica.
E ciò nonostante la singolarità del personaggio – che va ben oltre i costumini luccicanti, l’alternanza fra pulsioni di segno opposto e i baffi sempre ben curati -, abbia in ogni modo la capacità di incidere nella memoria di ciascuno la sensazione che fra noi sia vissuto qualcuno di irriproducibile.
Un uomo, Freddie Mercury, capace, come forse nessun altro, di provocare ancora oggi, e a qualsiasi latitudine, emozioni irripetibili; oltre che indurre, con ogni probabilità, specie nei più giovani, il sogno di una carriera similare; pur tuttavia ben consapevoli che anche una piccola frazione dei terreni di gradimento conquistati da Mercury rappresenterebbero parimenti il conseguimento di un sogno inconfessabile tanto si rivela ardito agli occhi dei più.
Pur connotato da pecche narrative, resta tuttavia un cult di sicuro interesse per tutti i fan, di oggi e di ieri.
Ma anche di tutti coloro che, pur non appartenendo a quell’epoca o a quel genere musicale, vogliono ripercorrere, seppur con tutti i limiti dianzi descritti, vita e carriera di uno degli artisti-divi più grandi di sempre.