Film di Nadine Labaki, solita a occuparsi di condizioni di disagio sociale, che mi ha molto colpito.
Stavolta, a differenza dei suoi precedenti lavori, non ci sono nè riferimenti nè chiari accenni alla “commedia”; durante la visione ci si ritrova proiettati nella dimensione del dramma di un minore, a fronte di una società che pare ignorare i più deboli o non sostenerli abbastanza.
Zain, dodicenne, è nato in una famiglia assai numerosa. In un tribunale di Beirut, viene condotto in stato di arresto per aver commesso un reato molto grave.
Stavolta è lui ad aver chiamato in giudizio i genitori. L’accusa? Averlo fatto nascere.
Il termine cafarnao esprime, in sé, una condizione di caos totale. In genere, con questa parola ci si riferisce a un posto caratterizzato totalitariamente da confusione e disordine.
Uno spunto perfetto per estrinsecare quanto la regista voleva mostrare al grande pubblico, laddove si parla di temi “tosti”, per i quali occorre una trattazione che deve dipanarsi nei giusti sentieri del tatto e dell’approndimento, se possibile di tipo “collettivo”.
L’infanzia negata o vissuta in condizioni estrema, i migranti, i fuggitivi, le figure dei genitori, le linee di demarcazione fisica e/o intellettuale tra le nazioni. Oltre all’indispensabile esigenza di poter disporre di documenti di carta ove si voglia essere annoverati nella coltre, non sempre educata ma sovente stupida e virulenta, dei cosiddetti “esseri umani” degni di attenzione, che, a torto, pare rappresentare un sottogruppo degli stessi.
Mescolando tutti elementi ne vien fuori una pellicola che, nell’aver fatto tesoro dei contenuti, intellettualmente ricchi, che pertengono al cinema fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne (Rosetta (1999), Il figlio (2002), L’Enfant – Una Storia d’Amore (2005)), a livello di puro realismo riesce a spingersi anche un po’ più in là.
Ciò lo si rileva già dalla scelta degli attori. Ciascuno dei quali, piccolo o adulto che sia, nella sua realtà ha davvero subito soprusi e variegate sopraffazione dal tessuto connettivo sociale, portandoli fino al limite dell’emarginazione sociale. Una tale operazione di realismo relativista, che potrebbe essere erroneamente interpretata come uno sterile tentativo di addivenire a una sorta di “Captatio Benevolentia”, invece è il vero catalizzatore dell’attenzione dello spettatore; ciò laddove il Cafarnao, così come qui viene abilmente rappresentato, lo obbliga a un pregnante e sostanziale confronto con i temi trasposti nella pellicola, oltre che a stimolare nel medesimo tutta una serie di domande dalla risposta molto ardua.
I luoghi presso i quali si svolgono le riprese vengono messi a nudo come le anime dei protagonisti: una storia in cui un fratello desidera proteggere la sorella, più piccola di un anno, nata da un matrimonio privo di alcun fondamento sentimentale, e che finisce per svilirsi nel deleterio quanto passivo asservimento dei genitori allo status dominante.
Zain non è in grado di comprendere ciò che spinge il padre e la madre a essere del tutto imbelli ed inchinarsi supinamente rispetto a tale stato di cose. Ma sa, dentro di sé, che non è giusto, e inevitabilmente reagisce. La ribellione è inevitabile. In pratica rinnega chi lo ha generato, indegni di aver messo al mondo lui oltre che indegni dello stesso status di genitori. Tuttavia, pur privo di punti di riferimento, farà da padre a un bambino non ancora svezzato. E, in una città rumorosa e caratterizzata da persone che ignorano le esigenze e le altrui necessità, ha l’abilità di inventarsi vere e proprie tecniche di sopravvivenza.
Una meritoria pellicola di Nadine Labaki, da sempre connotata da un vero impegno civile atto a fornire viva testimonianza delle assurde condizioni di esistenza di poveri, rinnegati e disagiati.