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© 2022 Senzalinea testata giornalistica registrata presso il Tribunale di Napoli n. 57 del 11/11/2015.Direttore Responsabile Enrico Pentonieri
Cinema

I morti non muoiono: Chi non muore va rivisto?

Christian Capriello
Christian Capriello 6 anni fa
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9 Min Lettura
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Premetto che chi scrive prescinde da sindrome da proselitismo e da “filonismo muto, ceco e sordo”. Vale a dire, in parole povere, non sono il tipo che necessariamente gradisce un film solo perché quel regista ne aveva azzeccata qualcun’altra in precedenza. Che a Jim Jarmusch, a 6 anni di distanza da ”Solo gli amanti sopravvivono”, terra di vampiri decadenti e misantropi, fischino le orecchie? Vediamo…

L’uomo è un furfante che ha consumato le risorse planetarie fino a provocare la macro spaccatura della calotta polare. È stato capace anche di indurre l’asse terrestre a spostarsi; e noi sappiamo “bene” che ciò è male. Molto male. Conseguenze? Ma certo! Giorno e Notte si scambiano di posto, i morti si destano dal loro eterno riposo e tornano in superficie, dissimulando le stesse gestualità legate alle azioni che svolgevano in vita.

In particolare, nella cittadina di Centerville in Ohio, passeggiano e mostrano un certo appetito nei confronti della carne umana. Fanno vari “spuntini”, nelle tavole calde, nei motel, presso le pompe di benzina, nelle fattorie, addirittura nei centri di detenzione. E vi preannuncio che Iggy Pop è lo zombi più antipatico – ma non per questo apatico – che si sia mai visto in uno Zombie-Movie.

Viene messo a dura prova il sistema della sicurezza, per il quale quest’emergenza dei morti viventi appare come assoluta novità. A cercare di porre un argine al fenomeno ci sono il capo della polizia di Centerville, Cliff Robertson, (l’eterno Bill Murray) e tal Ronnie Peterson (l’Adam Driver del “Blackkklansman” di Spike Lee), agente che mostra di esser particolarmente erudito sul mondo zombie e sulle peculiarità dei morti-viventi.

Li coadiuva la poliziotta Mindy Morrison (Chloë Sevigny), che impaurita oltremodo dalla circostanza, non avrebbe alcuna intenzione di affrontare la questione, arrivando a proporre di fuggire altrove. Se non fosse che l’intero mondo è ormai sotto l’attacco di queste creature che ciondolano seminando terrore, peraltro in parte ancora “affezionate” alle loro ossessioni terrene (caffè, chitarre, Chardonnay, telefonini antidepressivi, a citarne alcuni), oltre a esser desiderose di usare ogni  essere vivente per saziare la propria incontrollabile fame.

I non morti hanno un nemico assoluto: Zelda Wiston (Tilda Swinton), virtuosa impresaria di pompe funebri e con una affettività quasi perversa per la katana, che finirà per usare spesso, e non certo per tagliare il pane dei tramezzini (“Kill the Head” è uno dei refrain più frequenti della pellicola).

Fra i boschi, altresì, solo un uomo ha il privilegio di osservare senza rischiare nulla, e talvolta funge da voce narrante (il Tom Waits di “Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo”). Nel cast figurano anche Danny Glover – che dopo “Dal Tramonto all’Alba” di Quentin Tarantino, sembra ormai esser ritenuto funzionale, vuoi nei panni di vittima vuoi nei panni di carnefice, a questo genere di film – Steve Buscemi, Caleb Landry Jones e Rosie Perez.

Presenti, ma alquanto ininfluenti sul contesto e sulla narrazione, anche Selena Gomez, Austin Butler (Wil di “Shannara Chronicles”) e il musicista RZA.

Jim Jarmusch sforna quindi un ennesimo prodotto sui morti viventi, la cui ricorrenza nelle sue opere è da ricondursi, in prevalenza, alla sua chiara avversione per il mondo contemporaneo. Un globo spento, senza prospettive, che ritiene non aver più niente da offrire. Quel che poteva esser raccolto è stato raccolto, ma spesso anche mal impiegato o mal distribuito.

Tutto scorre sulle note di Sturgill Simpson, la cui canzone presta il nome al titolo originale (“The Dead Don’t Die“), oltre che intorno a un bozzolo ben sagomato di altrui “credits” (Samuel Fuller, Robert Kirkman, Frank Darabont, Don Siegel, George A. Romero, Ruben Fleischer) cui sovente si provvede al richiamo.

In questo contesto da avvenuta fine del mondo il terzetto Bill Murray-Adam Driver- Chloë Sevigny si muove a bordo dell’auto di servizio, che si presta a diventare una specie di sottomarino dai quali oblò riescono a concedersi di poter osservare il lento disfacimento del pianeta.

Lento. Ecco, quanto al film nel suo complesso, questo è il termine più esatto per definirne l’andamento. Lo sviluppo è piatto e senza alcun sussulto, se non addirittura in progressiva involuzione.

Anche a fronte della curiosità che può indurre, sulle prime, il dichiarato sconvolgimento climatico, il fatto che ci si limiti a imbottire ogni scena di zombie ciondolanti e affamati, senza alcun riferimento al riverbero degli effetti sul clima, è un grosso limite; e, a essere sinceri, nonostante un cast di prim’ordine, tutto ciò dà l’impressione di un voluto e colpevole incanalarsi lungo i binari di un classico film dal basso budget, il cui unico scopo pare diventare quello di riuscire ad arrancare, seppur con dignità, fino al centesimo minuto di proiezione.

A differenza di tanti altri commenti che ho visto in giro, poi, non rinvengo mica tutta questa pre modulata, orientata, ficcante e incisiva ironia; invero tale da fornire, “per interposto zombie”, la propria visione del mondo.

Anche i dialoghi fra Bill Murray e Adam Driver possiedono il vulnus della pesantezza e di una elevata insipienza – contrariamente a quello che vorrebbe essere, forse, lo scopo di Jarmusch – qui forzosamente mascherate da elemento catalizzatore per attrarre l’attenzione dello spettatore medio. Forse, nella presunzione che questo dovrebbe ricondurre la gamma di tutte le sterili loquele presenti a un unico comun denominatore: ovvero, in termini assoluti, l’ironico distacco dei protagonisti per l’orrenda situazione; magari nel tentativo di riproporre, tramite questo espediente, una quasi rassegnata accettazione per le oscenità del mondo moderno, quale diretta traduzione del pensiero fisso del regista.

Per non parlare degli effetti legati alle teste mozzate di fresco, da cui trasuda un inverosimile mix di fondo di caffè, sabbia e nicotina, che manco in “Casa Surace”. E anche il colpo di scena finale, sinceramente, travalica il concept basico di “vero colpo di scena”, laddove pare una cosa meramente buttata là, retaggio di una miscellanea di finali onirici, e che nulla ha da spartire con la “trama”.

Sinceramente, resta un ibrido, e di certo ancor meno di una pellicola incompiuta. Non appare nemmeno un “film di genere”, perché non riesce ad attestarsi, a parere di chi scrive, neanche in una delle tante sub-categorie intermedie dell’horror o dello splatter. Né, se mi è consentito, può ritenersi collocabile nel filone delle parodie di alcunchè. Duole dirlo, mi si creda, ma pare un film tirato per i capelli, che non reca messaggi significativi, né particolari spunti alla riflessione. Un sibilo, peraltro assai semplice, va solo all’ormai usurato “Ci sono vivi che sono più morti dei morti stessi”, magari in diretta rinvenienza con la loro atonia comportamentale, ma nulla di più.

Voglio essere onesto. Da Jim Jarmusch ci si aspetta di più e di meglio.

Questo film, purtroppo, va a incrementare quel pallottoliere grazie al quale, mio malgrado, incremento, di volta in volta, il contatore geiger delle delusioni cocenti.

E voi sapete bene – per quanto mi entusiasmo con sincerità di fronte ad opere davvero meritevoli -, come vorrei poter disporre, in eterno, di un pallottoliere del tutto privo di sfere.

Forza J.J., fa niente, può capitare a tutti e ti attendiamo alla prossima.

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Christian Capriello Giu 22, 2019
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Pubblicato da Christian Capriello
Christian Capriello, 42anni. Ingegnere, scrittore, risiede stabilmente nella dimensione del Sogno. Sposato, un bimbo di 2 anni. Scrivere è una sua passione. Minaccia stabilmente di non smettere di coltivarla. Come per la a poesia e il cinema americano.
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