A questa tappa del giro d’Italia ci tengo particolarmente. Siamo nella mia regione, la Campania, terra di origini antichissime annovera sei siti insigniti del titolo di Patrimoni dell’Umanità da parte dell’UNESCO. Il popolamento umano della Campania è attestato fin dal Paleolitico medio; è attestata la presenza di popolazioni di ceppo indoeuropeo; la zona costiera fu soggetto della colonizzazione greca divenendo così uno dei centri culturali più importanti della Magna Grecia, la quale in seguito eserciterà un’influenza decisiva sulla società romana e poi sull’intera civiltà occidentale; regno Borbonico di grande cultura e sfarzo.
E’ una terra che affascina chiunque. La costa e le isole fanno breccia nel cuore di chi le vive; Napoli con i suoi vicoli dove le mura di cinta sono rappresentate da palazzi magnificenti; scavi archeologici visitati dal mondo intero; la musica del mandolino accompagna romanze senza tempo. Gli occhi dei miei conterranei luccicano, hanno una fiamma ardente che scalda chi li guarda. Il Vesuvio domina la regione, sta lì che riposa ed è visto con timore reverenziale ed è il vulcano più conosciuto e visitato al mondo. E’ il nostro Dio, da lui dipende tutto.
La cucina campana è una delle più apprezzate al mondo e protetta dall’UNESCO. Solo da noi si mangia la vera pizza con le sue varianti storiche: Marinara e Margherita seduti a tavoli di marmo. I golosi troveranno terreno fertile tra babà, sfogliatelle, pastiera e dolci natalizi reperibili tutto l’anno. I terreni vesuviani sono perfetti la coltivazione delle uve che con la loro pigiatura rilasciano nettari come il Lacryma Christi mentre nel beneventano si produce un Aglianico degno di Bacco.
La storia della letteratura in regione ha origini antichissime, dando i natali ad illustri personaggi come Torquato Tasso, Giordano Bruno, Giambattista Vico, ma già dall’Impero Romano diede ospitalità ad Orazio e Virgilio. Grandiosa è la letteratura dialettale con Salvatore di Giacomo, Eduardo Scarpetta, Eduardo de Filippo e Totò.
Il mio ruolo è quello di raccomandarvi dei titoli legati alla Campania e sono in gran difficoltà perché impossibile ridurre a pochi libri secoli di grandissima letteratura.
Il ventre di Napoli di Matilde Serao
Le strade sono luride e le case fatiscenti. Nei vicoli si agitano mercanti di avanzi ed agenzie di pegni. Questo è il “ventre di Napoli”, la vita delle strette stradine ove il Sole più non arriva e, con esso, anche le istituzioni, cieche di fronte ad una realtà abbastanza aberrante e lontane dal puzzo mefitico dei liquami che si espandono per le viuzze dissestate.
In questi stessi ricettacoli di insanità, a fianco della miseria vive anche l’umanità, la pietà degli umili per gli umili, la carità, le vane speranze del gioco d’azzardo, il lotto, la pizza e il mandolino, le botteghe delle arti impareggiabili nel mondo.
Matilde Serao ha percorso queste stradine, andando a fare la conoscenza diretta con la miseria, andando lì dove i sindaci e il Governo non passano mai, contenti della gioia che riempie gli occhi di chi transita per via Caracciolo, contenti di vedere il bel panorama, di visitare Posillipo, di apprezzare i lati pittoreschi della città partenopea.
Il ventre di Napoli è un’opera storica ed essenziale per comprendere, e soprattutto per amare, la Napoli di oggi ed i suoi problemi, molti dei quali mutati di poco da quando la Serao li ha rappresentati all’inizio del ‘900.
La pelle di Curzio Malaparte
Una terribile peste dilaga a Napoli dal giorno in cui, nell’ottobre del 1943, gli eserciti alleati vi sono entrati come liberatori: una peste che corrompe non il corpo ma l’anima. Trasformata in un inferno di abiezione, la città offre visioni di un osceno, straziante orrore: la ragazza che in un tugurio, aprendo “lentamente la rosea e nera tenaglia delle gambe”, lascia che i soldati, per un dollaro, verifichino la sua verginità; le “parrucche” bionde o ruggine o tizianesche di cui donne con i capelli ossigenati e la pelle bianca di cipria si coprono il pube, perché “Negroes like blondes”; i bambini seminudi e pieni di terrore che megere dal viso incrostato di belletto vendono ai soldati marocchini, dimentiche del fatto che a Napoli i bambini sono la sola cosa sacra. La peste è nella mano pietosa e fraterna dei liberatori, nella loro incapacità di scorgere le forze misteriose e oscure che a Napoli governano gli uomini e i fatti della vita, nella loro convinzione che un popolo vinto non possa che essere un popolo di colpevoli. Null’altro rimane allora se non la lotta per salvare la pelle: non l’anima, come un tempo, o l’onore, la libertà, la giustizia, ma la “schifosa pelle”. E, forse, la pietà: quella che in uno dei capitoli di questo romanzo spinge Consuelo Caracciolo a denudarsi per rivestire del suo abito di raso, delle calze, degli scarpini di seta la giovane del Pallonetto morta in un bombardamento, trasformandola in Principessa delle Fate o in una statua della Madonna.
Il sangue di San Gennaro di Sàndor Màrai
«A Pasqualino, perché aveva sei anni e ogni mattina portava giù l’immondizia, al pescatore monco, perché ammansiva il mare, a santo Strato, perché proteggeva il palazzo e i malati»: a loro Márai dedica il suo «romanzo napoletano», ambientato nella città dove visse dal ’48 al ’52, prima di partire per gli Stati Uniti. A formare il vasto coro, lacero e sgargiante, che commenta la vicenda intorno a cui è costruito il libro sono gli uomini, le donne e i bambini della città, con la loro miseria, il loro lerciume, la loro fatica di vivere e il loro orgoglio ancestrale di aristocratici; e le interminabili chiacchiere, le liti che scoppiano furibonde, teatrali, ritualizzate, da una finestra all’altra, i lutti non meno teatrali e urlati, i santi arcigni e polverosi dentro le teche di vetro – con la loro umanità piagata e ghignante. Un intero popolo che, fra tutte le possibilità, crede che «la più verosimile» sia il miracolo. Un giorno, dalle parti di Capo Posillipo, vanno ad abitare due stranieri, un uomo e una donna (inglesi? polacchi?): displaced persons, così li definiscono le autorità, profughi. Anche loro, almeno per un po’, crederanno che lì possa avvenire il miracolo. Ma durante una violenta tromba d’aria si verificherà un evento che avrà il senso di una delusione assoluta, di una sconfitta inappellabile, poiché sancirà l’impossibilità di credere che ci sia un futuro per chi, in quanto esule, ha perso la propria identità. Alla fine, rimarranno il Vesuvio, il mare, e per ultimo il vento: «Li ho visti andare e venire, attraverso continenti e oceani, ma ho nascosto le tracce dei loro passi. Dove soffio io, non resta più nulla. Sono io che dico l’ultima parola. E poi verrà il silenzio».
Montedidio di Erri De Luca
Non è Gerusalemme, è Napoli, è un suo quartiere dal nome solenne e abusivo, Montedidio, dove frigge la vita densa e dove neanche i morti se ne stanno quieti. A tredici anni un ragazzino impara il lavoro, l’italiano e l’ammore, quello con la doppia emme. Si allena in segreto a far volare un magico pezzo di legno. A un suo nuovo amico, un vecchio calzolaio ebreo piovuto dal nord dell’Europa, arriva finalmente a scadenza una profezia, sotto la specie di un battito di ali. Protagonista è un luogo, Montedidio, un rilievo di tufo abitato da millenni, stratificato a ossa e ceneri vulcaniche. Dall’alto di un suo tetto la mezzanotte di capodanno esplode come un cratere, libera voli, spalanca precipizi.
Non avevo capito niente di Diego De Silva
Prendete la persona più simpatica che conoscete. Poi quella più intelligente. Adesso quella più stupida e infantile. Più generosa. Più matta. Mescolate bene. Ecco, grosso modo, il protagonista di questo libro.
Un po’ Mr Bean, un po’ Holden, un po’ semplicemente se stesso, Vincenzo Malinconico è un avvocato semi-disoccupato, un marito semi-divorziato, e soprattutto un grandioso, irresistibile filosofo naturale. Capace di dire cose grosse con l’aria di sparare fesserie, di parlarci di camorra come d’amore con la stessa piroettante, alogica, stralunatissima forza, Malinconico ci conquista nel più complesso dei modi: facendoci ridere.
Vincenzo Malinconico è un avvocato napoletano che finge di lavorare per riempire le sue giornate. Divide con altri finti-occupati come lui uno studio arredato con mobili Ikea, chiamati affettuosamente per nome come fossero persone di famiglia. La sua famiglia vera, del resto, è allo sfascio: la moglie l’ha lasciato, i due figli adolescenti, amatissimi, hanno i loro sogni e i loro guai. A Vincenzo Malinconico capitano improvvisamente due miracoli. Il primo è una nomina d’ufficio, grazie alla quale diventa difensore di un becchino di camorra, Mimmo ‘o Burzone, e si trova coinvolto in un’avventura processuale rocambolesca. Il secondo miracolo si chiama Alessandra Persiano: la donna più bella del tribunale, che si innamora di lui e prende a riempirgli la vita e il frigorifero. Ma il vero miracolo, per noi lettori, è la voce svagata, digressiva ed eccentrica intorno a cui ruota l’intero romanzo. Il vero miracolo è il pensiero storto e irresistibile di Vincenzo, che riflette su tutto quello che attraversa la sua esistenza e la sua memoria, seducendoci, di deriva in deriva, fino in fondo.
L’isola di Arturo di Elsa Morante
L’adolescenza di Arturo, un ragazzo che, orfano di madre, vive quasi in completa solitudine sull’isola di Procida. Il padre Wilhelm infatti, indifferente al figlio, è sempre in viaggio, ma il ragazzo idealizza la sua figura e sogna di compiere viaggi avventurosi come lui. Un giorno il padre porta sull’isola la sua nuova moglie, Nunziatella, coetanea del figlio, che sarà destinata a cambiare gli equilibri consolidati facendo nascere nel ragazzo una molteplicità di sentimenti contrastanti.
Il disprezzo di Alberto Moravia
Riccardo Molteni è un giovane scrittore sposato con Emilia. Quando per accontentare la moglie decide di comprare casa, si vede costretto ad accettare il lavoro di sceneggiatore. Battista, produttore cinematografico di successo, lo assume per una prima sceneggiatura, per poi affidargli una sceneggiatura più importante, relativa a un progetto di film sull’Odissea. Pur essendo fedele ad Emilia, si accorge che lei invece si sta raffreddando nei suoi confronti, finché lei infine ammette di disprezzarlo. Quando con Emilia viene invitato a Capri alla villa di Battista per lavorare sulla sceneggiatura con il regista tedesco Rheingold, Riccardo vede Battista baciare Emilia. Ciò lo spinge a decidere di abbandonare il progetto di lavoro e fare ritorno a Roma. Il mattino, al risveglio, trova un messaggio da parte della moglie che lo avverte che lei è già partita con Battista. Mentre Riccardo passa il resto della giornata a Capri, i due fuggitivi hanno un incidente d’auto nel quale Emilia perde la vita.