“Fai poche recensioni su film italiani, come mai?”. Domanda che spesso mi viene posta.
Sapete, sto imparando ad apprezzare molto il cinema dell’est asiatico (va sempre più a connotarsi di un crisma di evidente profondità nello sviscerare concetti e sensazioni), quello del panorama scandinavo (ormai hanno raggiunto livelli di qualità altissimi, anche in ordine agli effetti speciali e alle coreografie), sino a rivalutare, sebbene solo parzialmente, addirittura quello di stampo transalpino, che – buon per lui! – ha un po’ allentato la presa sul genere demenziale, onde poter proiettare, e con maggior vigore, le proprie analisi a riguardo dei rapporti e delle relazioni vere fra le persone.
Orbene, per quanto paradossale, questo film mi serve per fornire un’unica grande risposta al quesito dianzi menzionato. Quello afferente una mia presunta riluttanza a recensire film girati nell’ambito dell’italico stivale.
E colgo l’occasione per fare una premessa. Io ve la faccio, la recensione di un film italiano.
Ma non mi si dica che sia colpa mia.
Quanto alla “trama”…
Franco Masiero (Diego Abatantuono), manager musicale, è destinatario della classica offerta irrinunciabile: un potentissimo facoltoso magnate russo (come se non bastasse, pure amico di Vladimir il governatore) gli offre un acconto di 100mila euro. Motivo? Riaggregare i “mitici” Popcorn, gruppo musicale anni ’80. E perché? Strano a dirsi, i brani di questo gruppo fanno ancora furore presso i lidi della città di San Pietroburgo. E non solo.
Il russo con sperticata idolatria per tale gruppo pop dei tempi andati ha tutta l’intenzione di festeggiare con il loro apporto il suo compleanno. Il piccolo inghippo è che i Popcorn si sono sciolti 30 anni or sono.
Masiero si mette quindi alla caccia dei “Magnifici 4”, non senza appurare che ciascuno dei componenti non se la passa poi così bene.
Tony (Christian De Sica), il cosiddetto “frontman”, è ormai impegnato nella partecipazione a battesimi e sposalizi, appena defenestrato pure da una possibile finestra di ritrovata visibilità, ovvero il reality denominato “L’Isola delle Meteore”; Micky, “La Regina” (Angela Finocchiaro), si arrangia alla conduzione di un programma di cucina, afflitta da smaccata dipendenza agli alcolici; Lucky, il “ribelle” (Massimo Ghini), si è ormai tramutato in un indolente ferramenta; peggio di tutti, per certi versi, Jerry (Paolo Rossi, forse il più mortificato anche a livello attoriale), ridotto a fare l’artista di strada.
La reunion dei quattro rappresenta il palese obbligarli a guardarsi allo specchio, non a caso il loro stesso manager li chiama “cialtroni”. Un tour monodata, riservato a pezzi di antiquariato musicale che dimostrano ormai anche più della loro età, rimasti avvinghiati nella loro memoria all’unico loro pezzo ritenuto orecchiabile al tempo: cioè la hit anni ‘80 “Semplicemente complicata”, tratta dall’album cult “Frantumami di baci”.
Volendo, in teoria, il film aveva delle buone potenzialità. Il tema della canzone italiana di una certa età che resta d’attualità in altri paesi poteva anche essere un’idea carina. Sulla carta questa è una premessa comica strepitosa, che fa leva sulla reale passione che in Russia sembrano avere per la musica pop italiana. Se ne poteva fare una commedia davvero esilarante, con abbondanza di richiami al passato ma anche mille agganci al presente.
Il risultato è invece un vero e proprio papocchio: anche perché non c’è nulla di più tremendo di un film comico che non fa ridere manco per sbaglio.
Peccato anche per i singoli attori, imprigionati in un campionario di battutine francamente impalpabili e poco significative, con la sensazione che si sia attinto a piene mani anche dal comparto dei cinepanettoni di epoca “piaciona”.
Film insolitamente lento nella scrittura anche rispetto agli standard di Brizzi (patron dell’ambivalenza cinematografica di successo “Maschi contro Femmine” e “Femmine contro Maschi”), molto mal supportato, a quanto pare, pure da una triade senza idee di rilievo per questo film (Marco Martani, Edoardo Falcone e Alessandro Bardani).
Alcuni dialoghi sono poi un vero e proprio cazzotto nell’orecchio. Al punto che, di uno dei dialoghi fra i membri della band si arriva a raggiungere livelli assai elevati di “difficoltà di comprendonio”.
Non sembra poi esservi molta attinenza fra la realtà degli anni ’80 (che chi scrive ha vissuto in età senziente, ahimè!) e buona parte di quel pertinente spaccato che ivi viene rappresentato. Anche i costumi sono eccessivi fino al paradossale. Il riferimento ai parametri commerciali sfocia poi quasi nell’invadente. Carine le canzoncine, ma se il prezzo da pagare per ascoltarle è dover subire la visione di tutto il resto, mi viene da dire che non ne vale poi tanto la pena.
Il filone cinematografico cui può relegarsi “La mia banda suona il pop” è – lo dico con somma serenità – a metà fra l’esperimento fallito e l’aberrante limbo dell’incompiuto colpevole.
Passabile, a mio giudizio, il solo Diego Abatantuono, pur martoriato nell’immagine da quegli improbabili occhi celesti per i quali sembra esser stato colto, già da qualche tempo e addirittura nello spazio televisivo di talune trasmissioni, da misteriosa fissazione.
In giro ho letti commenti apocalittici, ma, tutto sommato, fidatevi, non è ingeneroso attribuire al girato la palma di ‘epic fail’. Lo spettatore resta sovente stranito, inquietato, quasi offeso nell’osservare sequenze che vorrebbero produrre in lui quel senso di incipiente quanto fragorosa risata che non arriverà.
La sensazione che, nelle intenzioni del regista, la pellicola volesse catalogarsi nel filone del “Trash consapevole” – alla stregua della sequela di quei Cinepanettoni che ci hanno inopinatamente accompagnato per decenni – è presto fugata.
In alcuni frangenti, purtroppo, è palese quanto vana la pretesa di voler rientrare nei film “seri”, addirittura arrogandosi un vessillo di “riflessione interiore” di cui dovrebbe dotarsi, a mio parere, in primis il regista di questa pellicola (Fausto Brizzi), squinternata e connotata da poco senso.
E, non me ne voglia l’intero entourage che si è occupato della produzione e della distribuzione del film, questo appare come un evitabile passo falso accompagnato da una inevitabile puzza di bruciato, derivante dalla fiamma di una solare evidenza.
Di questo film potevamo sicuramente fare a meno.
Lascia l’amaro in bocca, perché in Italia ci sono attori straordinari e le migliori tradizioni in tal senso.
E, soprattutto, tante altre magnifiche storie da raccontare.
Quindi, stavolta, sarò io a lasciarvi un quesito. Con la preghiera che, chi sa, mi possa rispondere.
Perché raschiare barili quando possiamo attingere alle vigne migliori?…
LA MIA BANDA SUONA IL POP: Il (triste) revival del progressivamente involuto

Christian Capriello, 42anni. Ingegnere, scrittore, risiede stabilmente nella dimensione del Sogno. Sposato, un bimbo di 2 anni. Scrivere è una sua passione. Minaccia stabilmente di non smettere di coltivarla. Come per la a poesia e il cinema americano.