Hanno fatto il giro del mondo le immagini dei poveri globicefali spiaggiati in Australia, sulle coste Tasmaniane.
I Globicefali sono dei cetacei della famiglia Delphinidae, anche se, a li vello comportamentale, sono ritenuti più simili alle balene, non dobbiamo confonderli con le balene pilota, al massimo possiamo dargli l’appellativo di “delfini pilota”.
Si tratta di grossi mammiferi marini neri o grigi con una testa “bulbosa” ed un corpo affusolato e idrodinamico.
Ebbene dalle ultime stime si evince che oltre 400 esemplari si siano spiaggiati e che, nonostante i numerosi tentativi del Tasmania Parks and Wildlife Service, delle forze dell’ordine e dei numerosissimi volontari accorsi sul posto per cercare di liberare in acque sufficientemente profonde i globicefali, oltre 300 sono già morti.
Questo disastroso evento all’apparenza inspiegabile viene complicato dalle mareggiate che rendono ancora più difficile l’impresa di liberazione in mare aperto degli esemplari.
Altra variante che rende estremamente pericoloso ed impegnativo il recupero è il fatto che gli squali si avvicinino alla costa attratti dalle numerose prede morte o in fin di vita.
Purtroppo più il tempo passa, più diminuiscono le speranze di sopravvivenza di questi cetacei; come per gli esseri umani nei grandi disastri, si sta cercando di attuare un “triage”, una vera catena della sopravvivenza nella quale cercare di dare, in questo caso, priorità agli individui che sembrano ancora maggiormente reattivi e vigili.
Si tratta di una disastrosa strage, perché anche alcuni animali portati in acque profonde che sembravano essere in salute sono poi deceduti.
Le autorità australiane lo hanno dichiarato uno dei “peggiori spiaggiamenti di massa”, nemmeno quello del 1935 infatti era così grave e numeroso (perirono poco meno di 300 esemplari).
Il problema al momento è anche quello di smaltire le carcasse dei cadaveri per il quale si sta facendo un lavoro mastodontico.
Anche se questa specie non è ritenuta in via d’estinzione una strage di così tanti esemplari non può certo lasciare indifferenti, ma la domanda che tutti si pongono è perché? Come è possibile che, degli esseri viventi così robusti e abili nel nuoto, riescano a spiaggiarsi in massa?
A quanto pare si tratta di un insieme di concause che crea delle vere e proprie trappole mortali: la forte intensità delle correnti associata alla particolare struttura della costa, a cui si aggiunge, ovviamente, anche inquinamento e surriscaldamento globale; il problema è che bastano pochi individui a creare l’effetto “domino”, si tratta infatti di animali con un saldo legame alla “famiglia”, al “branco”, con dinamiche di gruppo profondamente strutturate, pertanto se una semplice coppia prende una “brutta rotta” gli altri la seguono a ruota rischiando la vita.
Kris Carlyon, biologo marino del “Marine Conservation Program”, si vede purtroppo costretto, nella peggiore delle ipotesi a ricorrere all’eutanasia per gli animali sofferenti e comunque destinati alla morte; ma afferma speranzoso: “Non siamo a un punto in cui stiamo prendendo in considerazione l’eutanasia, ma rimane un’opzione a cui non vorremmo ricorrere”.