E’ allestita al secondo piano del PAN, Palazzo delle Arti di Napoli, in via dei Mille 60, la mostra “Il nostro 900”, fino al 10 marzo 2019. L’obiettivo è di contribuire a rivitalizzare e valorizzare il dibattito critico che, a partire dalla seconda metà degli anni 80, si è sviluppato intorno alla pittura e scultura napoletana del XIX secolo e che trova il suo esordio istituzionale con la mostra “Fuori dall’ombra”, a Castel Sant’Elmo nel 1991. A dieci anni da tale evento prese corpo, a cura di Mariantonietta Picone Petrusa, l’importante esposizione, “Gli anni difficili” del 2001, cui va ascritto il significativo merito non solo di aver portato sotto i riflettori artisti sino a quel momento meno noti, ma anche e soprattutto di aver additato agli studiosi l’esigenza di una nuova e più attenta rilettura delle opere del 900 napoletano, al fine di declinare le ricerche portate avanti dagli artisti partenopei nel più vasto e sedimentato contesto della pittura nazionale.
Le moderne istanze dell’arte aprirono nuovi orizzonti, dando il via ad una vera e propria scuola napoletana. Si susseguono nel percorso espositivo opere di Alberto Chiancone, “Nello studio”, (le solitudini), in cui si radicalizza l’umano: quello è il suo «stile» che opera sulle variazioni interpretative formali. Egli è un pittore di rara potenza, di forti contenuti, un artista che ha avuto e avrà ragione delle mode e del tempo.
Eugenio Viti, presente con “L’abito bianco”, è capace di passare da violenze cromatiche quasi fauves, ad enigmatiche sospensioni metafisiche, fino alla rivisitazione in chiave moderna degli azzardi chiaroscurali di Caravaggio. L’artista ha mantenuto sempre molto alto il livello qualitativo della sua ricerca, ottenendo in vita riconoscimenti importanti. Dopo la sua morte è in parte calata l’ attenzione istituzionale nei suoi confronti, che ha continuato, tuttavia, ad essere amato da non pochi raffinati collezionisti. Nella sua opera prevalgono i ritratti femminili e i paesaggi, temi ricorrenti e divenuti ben presto rappresentativi, supportati da una ricerca pittorica incessante, tesa a raggiungere il massimo dell’ efficacia espressiva con un linguaggio sempre più sintetico.
Carlo Verdecchia, con l’opera “Le tre età”, partecipa alla poetica novecentista per il senso plastico e monumentale delle forme, soprattutto nelle figure, per la nitida impostazione spaziale e per la severa tavolozza pregna di luce. Proprio i ritratti denotano una forte capacità espressiva ed un’intensa resa psicologica. Una pittura dunque, di impianto solido e rigoroso, resa con una tavolozza dalle cromie decise, dagli impasti densi e dai tagli anticonvenzionali.
Accanto a queste opere inedite, altri dipinti esposti sono: “Il marinaretto” di Emilio Notte, “Elisa nello studio di Carlo De Veroli” di Luigi Crisconio, “Moulin Rouge” di Gennaro Villani, “Mia figlia” di Carlo Striccoli, “Dopo il bagno” di Giovanni Brancaccio, “Le amiche al caffè” di Nicola Fabricatore. Infine, Raffaele Lippi, Enrico Cajati e Elio Waschimps.
All’inizio del XX secolo, gli scultori napoletani si posero subito in stretto rapporto con l’arte europea e con le tendenze europee che stavano prendendo forma in Italia, dimostrando in tal modo di voler prendere le distanze dalla precedente tradizione ottocentesca. Tra quelli che subirono l’influenza dalle Secessioni e dalla maniera impressionista di Medardo Rosso, si evidenziano Raffaele Uccella, autore di una morbida testina di bambina intitolata “Sisina”, dedicata alla sorella morta precocemente.
Dopo una prima aria liberty, documentata dai sensuali nudi muliebri come, “Bagno di sale” di Gaetano Chiaromonte, “La fonte” di Francesco Parente, e il nudo di donna di Antonio De Val, con la “Salomè che bacia la testa del Battista”, dove l’erotismo è ancora più audace, Carlo De Veroli introduce una linea decò seguita fino ai primi anni Trenta. Dalla fine degli anni Venti, fino agli anni Quaranta, sotto il regime fascista ci fu un orientamento verso il “ritorno all’ordine”. Nel ventennio successivo, si vira verso la proposizione di una soluzione classica, che recuperava la prospettiva, lo studio della composizione, la forma solida, lo studio dei volumi, i valori plastici secondo ascendenze rinascimentali o “primitive”. In questo indirizzo si inserirono anche gli scultori napoletani, Pasquale Monaco, Antonio Mennella, Carlo De Veroli, Antonio De Val, Vincenzo Meconio, e Pasquale D’angelo.
“Giapponese”- Pasquale Monaco.
Uno degli artisti più impegnati fu Saverio Gatto, rappresentato da quattro lavori. Giovanni Tizzano, invece, figura con alcuni lavori tra cui un bronzo, Totem, (o Candida), che esemplifica una linea anticlassica avviata al recupero dell’arcaismo e dell’arte primitiva. Allo stesso modo si nota l’evoluzione di Francesco Parente, presente con due terracotte primitive. La memoria rinascimentale quattrocentesca erede del dalmata Francesco Laurana, si legge nel ritratto di “Luciana” di Lelio Gelli, scultore fiorentino trapiantato a Napoli. La moderna linea figurativa novecentesca giunge ai primi anni Cinquanta con due opere di un giovane Giuseppe Pirozzi e in due lavori degli anni Settanta di Augusto Perez, grande scultore classico-metafisico-surrealista, che, con la “Testa di Ermafrodito” del 1973, e il “Ritratto del pittore Salvatore Vitagliano”, inaugura una feconda stagione artistica. Con il Novecento storico dialoga la recente produzione di Paolo La Motta, pittore e scultore napoletano che presenta una terracotta, “L’accappatoio”, con la quale l’artista vuole rendere eterno, un singolo atto di vita quotidiana.