Matteo Garrone non ne dimentica nessuno. Rispetto al romanzo d’origine del Maestro Collodi – roba così genuina, pionieristica e indimenticabile, da far accapponare la pelle a donne e uomini di qualsiasi generazione, potendo contare su grado di fascinazione assolutamente trasversale – restano tutti i personaggi principali.
Geppetto e il burattino di legno più famoso di tutti i tempi, Mangiafuoco, Lucignolo, la Fata Turchina, il Grillo Parlante, il Gatto e la Volpe, l’Omino di burro, il Tonno e la Balena. L’ennesimo adattamento cinematografico di una delle favole italiane più conosciute del pianeta, altresì accorto a proporsi come assolutamente aderente e rispettoso dell’originale. E questo si rivela assolutamente un bene.
Il casting deve essere stato molto accurato, evidentemente nell’esigenza di rispettare al massimo possibile il novero di espressioni e di volti che doveva conseguirsi. Tutte facce adatte, con annessa capacità di recitazione molto al di sopra della media. Estrema cura anche nei costumi e nei trucchi (pregevolissimo l’effetto del legno di cui si fa sostanza il bambino). Altresì, estrema dovizia nell’elargire piccoli e mai ridondanti speciali di second’ordine, e solo laddove questi si rivelano indispensabili per sostenere uno dei canovacci narrativi più evergreen di sempre, e in assoluto.
Il regista è evidentemente innamorato dell’opera e del romanzo originale, e da ogni sequenza ne trasuda l’amoroso rispetto. Garrone, poi, è molto bravo già di per sé, e quindi il risultato è un perfetto equilibrio nella miscela di elementi narrativi e di plasmatura di personaggi che, nel tempo, indipendentemente dai vari cicli generazionali, sono ormai diventati archetipici; tendendo, inesorabilmente, in direzione di quel fulcro ebbro della più genuina drammaturgia.
Anche questa pellicola vede il sempre più affascinante percorso iniziatico relativo alla vita di un burattino che sogna di diventare un bambino reale. E quindi, in prospettiva, di diventare un uomo.
Nei suoi occhi disincantati, mai va ad eclissarsi questo obiettivo. La barra è sempre a dritta, anche nei momenti difficili, nei frammenti di un’avventura cui, in taluni frangenti, lo sconforto è un compagno di viaggio purtroppo così fedele da fare il paio con la più aspra disperazione.
Spesso ai salti compiuti in avanti verso la meritoria acquisizione, “step by step”, di una nuova e più felice condizione, fanno eco degli ancor più cospicui balzi all’indietro, facendo si che si abbia la perenne sensazione di assistere alle volute ginniche di un elastico sempre a un epsilon dallo spezzarsi definitivamente e senza alcuna possibilità di ricorso a una seconda chance, ripiombando al punto di partenza pur arrivato, spesso, giusto a un passo dalla “trasformazione” tanto desiderata.
Gli interpreti sono pienamente all’altezza della situazione: Benigni è compassato e commovente, e bene va a replicare l’efficacia del celebre e compianto Nino Manfredi nella versione televisiva del ”Pinocchio” di Luigi Comencini). Il giovanissimo Federico Ielapi è di statura e fattezze minute, ma a suo modo è davvero determinato e granitico nelle sue volontà e velleità, sempre a cavallo fra l’esuberanza della giovane età e la brama di appartenere al mondo dei sanguinei, corroborando il tutto con ciclopiche alternanze di disobbedienza e lealtà.
Massimo Ceccherini e Rocco Papaleo, sono verosimili compositori della celebre coppia “Il Gatto e la Volpe” ; Gigi Proietti, perfettamente a suo agio nel ruolo, funge da arcigno Mangiafuoco, dotato di starnuto facile e ancor più agevole invettiva; Davide Marotta è il Grillo Parlante. Maria Pia Timo è la Lumaca, Enzo Vetrano è il Maestro, Nino Scardina è un credibilissimo Uomo di Burro. E poi ci sono le due fatine (bambina e adulta) Alida Baldari Calabria e Marine Vacht, la prima compagna di giochi (e marachelle), la seconda mamma e Madonna. Forse paradossalmente, il personaggio sul quale il focus è risultato attenuato è Lucignolo, interpretato dall’effervescente volto da scugnizzo del piccolo Alessio Di Domenicantonio.
Questo Pinocchio è visivamente splendido e pedagogicamente inappuntabile; va poi a rilevarsi quel quid di prudenza verso quello spirito anarchico che pur va a subodorarsi “tra le righe”.
Manca Melampo, il che apre la porta a un dubbio: ovvero, che lo spirito notoriamente trasgressivo di Collodi – che fra le righe fa il tifo per Lucignolo e disprezza Melampo – sia stato ridimensionato dalla necessità di costruire una favola più addomesticata, meno incline alla provocazione generale.
Garrone compone del Maestro un quadro feroce, al limite dell’accusatorio, quasi a lasciar intendere che Pinocchio non avesse poi sbagliato a marinare la scuola.
I toni utilizzati in questa trasposizione cinematografica sono, poi, piuttosto tendenti al “pacifico”, un filo ridimensionando quella vis sovversiva che ha relegato Pinocchio nell’olimpo della narrativa immortale, tuttavia non stemperando nello spettatore il seme della perenne curiosità per il dipanarsi della trama, pur consapevoli di conoscerla ormai a menadito.
In ogni modo, anche in questo lavoro, non può non evincersi che trattasi, al di là di tutto, di un’opera senza tempo.
E Pinocchio, ovvero l’adorabile bugiardello di legno, resta uno dei cult più commoventi della storia.