Guardiamoci negli occhi e diciamocelo. Possiamo essere adulti quanto si vuole, impelagati in mille e uno vicissitudini e diecimila mestieri differenti. Ma la verità è una. Nella maggior parte dei casi, siamo veramente noi stessi quando siamo a casa nostra.
Ovviamente, parlo di contesti sereni e comunque non connotati dalla compresenza di psicopatologie significative, magari implementate in novelli Hannibal Lecter, James Mesrine de noantri. Questo, tanto per intenderci. Lo dico e lo preciso perché altrimenti parte il solito e invettivistico plotone dei sostenitori della teoria “Sono proprio le case a essere le principali fucine del Male assoluto”.
E grazie al cappero, risponde il giornalista impegnato. La scoperta dell’acqua calda, al confronto, è pura innovazione tecnologica. Aggiungiamo quindi la clausola cautelativa: “Fatte salve le debite eccezioni”.
Nel proprio focolare, dicevamo, siamo generalmente ben lieti di svestire dei rigidi panni che – talvolta e giocoforza – siamo costretti ad indossare. Ci lasciamo andare. Ci sentiamo quantomeno più sereni. O, nel peggiore dei casi, più sciolti. Bello camminare in pantofole, con una maglietta anche rabberciata, un comodo pantaloncino e via. Siamo liberi. Ovviamente parlo degli uomini.
Lacci e lacciuoli col mondo esterno vengono meno. Si sciolgono nodi, ma si riannodano i rapporti diretti con la carne della nostra carne. La nostra vista si dota di nuove e diverse diottrie. Il fumo si dirada. E ci aggiungo pure un po’ di vaniglia.
Casa, dolce casa. Il luogo dove siamo liberi di esprimere, quando vogliamo, ogni nostra reale emozione. Il nostro tetto, come bussola e visiera del nostro quotidiano, custode del presente, grillo parlante del nostro domani per quanto spesso inascoltato, la tesa del nostro cappello di percezioni.
Perché è a casa nostra, specie quando riusciamo a disconnetterci da qualsivoglia multimediale attrattiva, che riusciamo a ragionare. Persino a sognare.
I sogni. I desideri. Le passioni. Le prospettive. I punti di vista. In casa propria, tutto ti si presenta con contorni più chiari. Smussato da ruggini, rancori e rivendicazioni. Un sospiro, e via col “censimento” emozionale. Ripartire da capo, o riprendere discorsi sospesi e/o malamente interrotti.
Magari dopo la visione di qualcosa che sia tecnicamente in grado di rasserenarti l’anima.
Esiste qualcosa del genere? Si, esiste. Esiste eccome.
E quindi EVVIVA i film della Pixar. Personalmente, adoro quelli aventi a tema la FAMIGLIA. Devo dire la verità, se lo meritano un accorato ringraziamento. Grazie di cuore ai geniali creatori di questi mondi che, pur partendo dal qualificarsi come immaginari, finiscono sempre per tuffarsi nell’alveo delle similitudini e delle inevitabili contraddizioni che splendono nei nostri stessi universi. Galassie in cui è saggio esser tanto pianeti quanto satelliti, in uno scambio di ruoli che spesso è benefico, per noi stessi e per chi ci circonda.
L’AMORE. Costante universale di questi capolavori. Personalmente, non è mai accaduto che, in almeno un paio di circostanze (per ciascuno di questi film a tema), non piangessi di calde lacrime di commozione. E, per inciso, pur di radice sensibile, non sono tecnicamente un CHIAGNAZZARO dalle melense attitudini. Si piange. Si. Accade. Perché sono “pellicole” che parlano al cuore. Specie quando sei a casa, sei disarmato. Giù tutti i cancelli. E che bello essere indifesi. Sono film strutturati alla grande. I vari passaggi sono vagliati al microscopio. Lo si avverte istante per istante. Sequenze asciutte, mai oberate da fronzoli emotivi, che ti inducono all’immedesimazione. E che ti invitano a farlo nel più breve tempo possibile.
Impossibile che, durante e dopo uno di questi film, non si venga colti da un’improvvisa voglia di stringere, magari una volta di più del consueto, il proprio partner o i propri figli. Non vi credo se affermate il contrario. Vi bollerei come orgogliosi di una “adultità” – n.d.r. so che non esiste! – che non avrebbe alcuna ragion d’essere.
Inside Out, Coco, Baby Boss. Solo per citarne alcuni, e giusto fra i più recenti. Meraviglie visive che potrebbero essere osservate all’infinito. L’anima che viene accarezzata alla radice; la consapevolezza che, di film del genere, potremmo tutti esserne attori, protagonisti e comprimari. Temi sempre attuali. Tanti e sempre in divenire, per affrontare i quali l’unica arma è, in assenza di manuali ad hoc, una costante applicazione. Il rimbrotto alla carne della propria carne, i rancori maturati, le passioni frustrate, la gioia di poter fare la pace.
E, su tutte, il perenne quanto imperituro bisogno di DIALOGO.
Per Diana, ribadisco, il bisogno di dialogo. L’esigenza di una connessione reale, autentica e genuina con chi ami. La necessità di far sentire all’altra metà del tuo cielo tutto il tuo calore. Saper leggere fra le increspature e le frizioni insinuatesi nei rapporti con coloro che, in fondo, sono la tua ragione di vita. Pur, a volte, non dimostrando di esserlo. Se questi film hanno un merito, consta soprattutto in questo. La sottolineatura che, se c’è volontà, tutto può essere ricucito, persino le ferite più profonde.
La comprensione reciproca come cemento. Noi, come umili mattoni, pronti a riposizionarci nelle caselle in cui, di volta in volta, sarà possibile fornire ogni utile contributo a reggere la più suprema e irriproducibile fra le Cattedrali dell’uomo. La fase catartica di ciascuno di questi gioielli è proprio questa. La loro struttura flessibile, armonica quanto dinamica. Un linguaggio semplice, che parla al cuore, pur partendo dall’esposizione delle reciproche posizioni e dalla pesatura delle connesse conflittualità.
Il perenne bisbiglio e l’invito alla reciproca consolazione. Il meritorio suggerimento che invoglia a trovare un punto di sintesi fra genitori e prole, specie quando quest’ultima è caratterizzata da quella bizzosità legata all’età e al contesto urbano-sociale in cui si trovano queste giovani animelle; che puoi sì plasmare in ragione delle esigenze, purchè nel rispetto del loro quadro emozionale.
La discussione, il confronto schietto e costruttivo quale unguento più efficace per la ricomposizione dei livori e l’arrotondamento delle tante e variegate spigolosità venutesi a creare fra le parti. Talvolta, per pigrizia, talvolta per stanchezza, talvolta per superficialità. Quindi, ben vengano, anche in futuro, pellicole del genere.
Quasi sempre assai più efficaci di talune presuntuose cinematografie di genere; genesi di opere stantie e pure un poco indigeste, specie quando risentono di evitabili orpelli, sovente connessi a quelle visioni di stampo politico (o politicizzanti) che tanti cineasti purtroppo si ostinano a voler vendere, celandola fraudolentemente sotto il falso vessillo della libertà di pensiero.
E ora scusatemi. Ho necessità di andare. Devo guardare Coco.
Sdraiato sul letto, stretto stretto a mia moglie e al mio bimbo di 2 anni.
Sapete, è una situazione più gustosa della cioccolata.
E ve lo dice uno che fa goloso di secondo nome.
Mi avessero dato un cent per ogni volta che lo vedo, sarei diventato ricco.
Ma lo sarei ancor più se qualcuno me ne elargisse mezzo ogni volta che mi emoziono.
Ah, a proposito. Lo dico per coloro a cui dovrebbero fischiare beneficamente le orecchie.
“Famiglia” non è una parolaccia. Non lo è mai.
Basta saperla pronunciare.
E sempre per esteso.
Alla prossima.